Uno, nessuno e centomila

di Vitaliano Brancati

Usciamo da noi stessi e mettiamoci nei panni di uno scrittore vero: poi domandiamoci: "Per chi si scrive?" 
Una vecchia voce risponderà subito: "Per il pubblico!"
Ma non c'è un pubblico che non sia fatto d'individui. Scomponiamo dunque questo pubblico nei suoi elementi: l'avvocato A, l'ingegnere B, il farmacista C, il professore D, il cavaliere E, lo studente F, la signora G. Richiamiamoli alla memoria ad uno ad uno, e converremo che per nessuno di essi prenderemmo la penna e veglieremmo la notte. Anzi, se uno solo di questi visi si presentasse davanti al nostro scrittoio nel momento in cui iniziamo una pagina, la penna ci cadrebbe di mano.

Ricordiamo quale sapore amaro ci lasciarono i loro elogi e calde strette di mano: un nero destino li spingeva a sbagliare anche quando attribuivano un pregio alle cose che noi stessi credevamo pregevoli. Così i loro dubbi ci lasciarono tranquilli, e le censure non ebbero il potere di scoraggiarci né quello di confortarci.
Per nessuno di loro si scrive: né d'altro canto il pubblico esiste al di fuori di loro.
Si dirà: "Per uno solo non si scrive, ma per tutti sì!" 
Tutti! Che vuol dire tutti? Cosa aggiunge l'elogio sbagliato dell'ingegnere C all'elogio sbagliato del farmacista D? È una strana pretesa che si correggano a vicenda: vero è invece il contrario.
Quanto valga un gran pubblico, concorde nell'applauso, ce lo dice una folla di mille o centomila persone.
Non credo che un artista o un filosofo andrebbe felice a letto dopo un applauso simile. Soltanto i tenori ricevono con soddisfazione, sul petto ancora gonfio, l'evviva di una platea; il musicista invece si va nascondendo dietro le volute del soprano o un albero di cartone.
Quando all'avvocato A si aggiunge il farmacista B, e a questo l'ingegnere C, e a questo lo studente D, via via sino a mille persone, quella che si opera non è una somma, ma una sottrazione; ciascuno toglie all'altro qualche cosa: e il secondo perde, per opera del terzo, più di quanto egli abbia tolto al primo.

Così la cifra di una folla è più bassa di quella che si ricava da una persona sola; e il sì di un bambino vale più dell'urlo d'approvazione di una moltitudine.
"Per chi si scrive, dunque?"
"Per gli amici," risponde ancora la voce.
Ma per gli amici noi viviamo, non scriviamo. Guai a scrivere per gli amici! O essi pensano male del nostro lavoro: e sarà per noi doloroso che le sole persone che amiamo amino così poco le sole cose a cui teniamo; o ne pensano bene: e può darsi che un sentimento di riverenza e rispetto per quello che avviene in noi e, in fine, un senso d'inferiorità, disturbi in essi il sentimento dell'amicizia che è fatto di parità.
Gli amici non ci leggano: ad essi vanno i nostri discorsi e non i nostri libri.
Si scrive allora per le persone che stimiamo?
Forse. Uno scrittore vero non ha più di cinque o sei lettori in un secolo: tutti gli altri colpiscono con gli occhi a destra o a manca delle parole; non mai nel pieno di esse.
Virgilio, per trovare un lettore nel senso totale della parola, deve aspettare dodici secoli fino al giorno in cui un giovane di Firenze torna a casa coll'Eneide sotto il braccio.
È solo allora, quando gli occhi di Dante Alighieri cominciano a scorrere da «arma virumque cano» giù giù fino alle ultime parole del poema, che il poeta mantovano viene letto veramente.

Con questo incoraggeremo l'estetismo o l'impenetrabilità?
No, al contrario, perché l'uno e l'altra sono i modi più comuni, almeno ai nostri giorni, i più fittizi ed esterni per mettersi al di fuori dello spirito di massa.
Ma il vanto di non essere compresi che da pochi va solo agli estremamente chiari, come Leopardi, Virgilio, Manzoni ecc., e non agli oscuri. Una cosa è sfuggire alla comprensione dei più con un verso come «Dolce e chiara è la notte e senza vento».
Sarebbe troppo comodo potersi mettere insieme agl'incompresi soltanto perché si è incomprensibili; tutti saremmo in grado di farlo con poco sforzo, cucendo insieme parole lontanissime l'una dall'altra per significato, suono e concordanza. Fortunatamente le leggi della gloria sono rigide: la grande poesia è intesa da pochi soltanto perché è chiarissima.

Dolce e chiara è la notte e senza vento 
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna...

Com'è facile scambiarla per una frase comune, e dunque non capirla!
Queste considerazioni, naturalmente, vengono mosse per conto d'uno scrittore vero.
Quanto a noi, il fatto che una sola persona inforchi gli occhiali per leggere una nostra parola costituisce un curioso accidente capitato a lei e a noi non si sa bene per quale ragione. Mentre quegli occhi, diradati da altre cure e pensieri, scorrono sulla colonna di giornale, che presuntuosamente ci siamo annessa, noi abbiamo il diritto, se non l'obbligo, di fremere, impallidire, sudare freddo.

E quale ringraziamento vola al cielo quando vediamo quella persona, dopo la paziente lettura, non stracciare il giornale né buttarlo irosamente dal finestrino del tram.

«Il Tempo», 17 luglio 1948

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