Le rivelazioni delle Giornate

Too Much Johnson.jpg

Il sito di I mille occhi segnala volentieri le manifestazioni e le rassegne meglio convergenti con la nostra. A conclusione delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone riprendiamo da Il manifesto l'articolo conclusivo del nostro direttore, completandolo a seguire con la precedente corrispondenza dal festival. Ne risulta un quadro di proposte di programma che lasciano segni importanti e aprono la via a ulteriori scoperte.

 

http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20131016/manip2pg/12/manip2pz/347230/

http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20131010/manip2pg/12/manip2pz/346965/

 

FESTIVAL - SI È CONCLUSA LA TRENTADUESIMA EDIZIONE DELLE GIORNATE DEL CINEMA MUTO CON LA «SORPRESA» DELL'INEDITO PRIMO LUNGOMETRAGGIO DI ORSON WELLES «TOO MUCH JOHNSON»

La bellezza ritrovata della giovane America

APERTURA - SERGIO M. GERMANI 

PORDENONE 

Capolavori in cartellone, come «Il vetturino notturno» di Heorhii Tasin e quattro film del cineasta svedese maupassantiano Gustaf Molander

Ci ha letteralmente travolti la bellezza del ritrovato primo lungometraggio di Welles Too Much Johnson girato nel 1938 ben prima di Citizen Kane. Incompiuto solo in quanto lo è tutta l'opera di Welles. Ma tutt'altro che da apprendistato dilettantesco come cautamente insinua persino qualcuno tra quanti hanno il merito della riscoperta. Welles, per fortuna, è sempre rimasto un geniale dilettante, altrimenti sarebbe un insopportabile cineasta del controllo d'autore.

Vanno messi un po' di puntini sulle i per questo fondamentale ritrovamento, per cui Cinemazero, Cineteca del Friuli, Paolo Cherchi Usai (cui si doveva già la prima proiezione di Fear and Desire di Kubrick), Ciro Giorgini e lo sfortunato regista cividalese Mario Catto (morto assiderato l'anno scorso a Milano a 42 anni senza aver mai saputo di aver indirizzato un anonimo ammasso di pellicola verso la direzione giusta) andranno iscritti a lettere cubitali nella storia del cinema. Merito ulteriore è non essersi accontentati di un menzognero «restauro digitale» (che, l'abbiamo visto altre volte anche qui, vampirizza i film girati su pellicola trasformandone il corpo in cadavere squisito) ma di averne voluto una stampa analogica a 35mm. Puntini sulle i per andare però oltre le cautele che hanno suggerito una proiezione in anteprima mondiale «didattica» con tante preziose informazioni ma che ora dovrebbe aprire la strada a proiezioni del film puro e semplice, pienamente godibile tantopiù se accompagnato da una musica che recuperi quella originalmente prevista di Paul Bowles (non uno qualsiasi, dunque, ma un importante scrittore occasionale musicista). 

E ancora puntini sulle i per dire che il film non appartiene solo al giovane Welles ma anche a quello maturo, se fino al 1969 egli vi ha apportato ritocchi di montaggio, e la copia proiettata deriva da questo «last cut» databile quindi più precisamente 1938-1969. Ma che cosa è successo perché la copia venisse allora spedita in Italia e approdasse per caso a uno spedizioniere di Pordenone? Forse bisognerebbe esaminare la polizza d'assicurazione sulla casa spagnola di Welles, bruciata nel 1970 e nel cui rogo secondo le dichiarazioni del regista il film sarebbe scomparso. Invece esso è arrivato in Italia, dove nel 1969 Welles viene a interpretare il capolavoro del miglior periodo di Huston, Lettera al Kremlino. Film che appunto si gira a Cinecittà, quindi è ipotizzabile che i precedenti ultimi ritocchi di montaggio (per farne dono di compleanno al protagonista e amico Joseph Cotten, secondo parole di Welles) gli avessero fatto venire voglia di farne qualcosa di pubblicamente proiettabile: dopotutto i film di Welles sono sempre orientati dal caso, e prima di F for Fake o del ritrovato It's All True si poteva ben immaginare un «compiuto» Too Much Johnson.

Ma che cos'è dunque questo film? Dopo aver realizzato un altro breve film muto, Hearts of Age, Welles fa rivivere le comiche sennettiane per un entr'acte (volutamente citiamo il precedente di Clair e Satie) di un suo spettacolo teatrale. Ma del comico vi rivive la più pura isteria, che fa percorrere al protagonista, un Joseph Cotten all'epoca attore teatrale ma già grandissima presenza di cinema, tutto lo spazio americano, innanzitutto urbano, attraversandolo nelle sue altezze, per giungere infine a una ricostruita Cuba (e viene in mente la performance di messa in scena di un film che ricrea da dentro quell'isola, Soy Cuba di Kalatozov, altro film riemerso a distanza). Si pensa naturalmente anche alle performance del Harold Lloyd vertiginoso (il cui The Freshman ha opportunamente concluso il festival durante il quale l'abbiamo visto citato nel bel film di Asquith in versione svedese e in uno dei più bei film d'animazione sovietici). Ma oltre Lloyd e Sennett (di cui si è visto qui un bellissimo Mabel Normand da lei diretto) si va anche oltre il territorio della comica, è l'America tout-court il vero oggetto del film, compiuto prologo a Citizen Kane che peraltro fu varato dalla RKO dopo una proiezione-provino di questo Too Much Johnson. E non è senza interesse che assistente del film fosse John Berry, cineasta fatto diventare esule dal maccartismo. Il film rientra di rigore tra le massime isterie americane che includono il «maccartista» My Son John di McCarey e The Cobweb di Minnelli.

Abbiamo parlato di ucronia nella presentazione del festival, dopo il quale ce ne risuona l'assonanza con Ucraina, da cui sono arrivati altri capolavori congelati, anche se purtroppo in copie DCP che fanno venir voglia di vederli davvero così come dopo aver visto un Caravaggio in riproduzione si sente il bisogno di avvicinarsi al corpo reale del dipinto, e secondo Zurlini persino di toccarlo: la vera arte, si sa, è profondamente hard. Non è stato possibile toccare ma solo intuire la bellezza dei riproposti, immensi Dovzenko, o delle riscoperte assolute come il Heorhii Tasin di Il vetturino notturno che provocò persino proteste proletarie contro il suo psicologismo borghese e oggi (ucronia, appunto) ci appare il miglior compagno di strada del cinema rivoluzionario, proprio perché della rivoluzione dà una cupa immagine notturna, ripresa dall'operatore tedesco Albert Kühn, e a tratti quasi parodia la scalinata e la carrozzella del Potemkin. Splendido anche il comico L'opportunista di Spikovski, in cui la rivoluzione trova il suo eroe in un cammello, miglior preludio a un Ioseliani.

Ma nel continente sovietico le vie di cinema opposte possono ormai incontrarsi nella verità della grandezza lasciando fuori solo i film caduchi. La madre di Pudovkin, qui rivisto, si rivela un grande film dell'immagine inconscia della rivoluzione, altro che film ufficiale o psicologizzante! Lo splendido trailer ucraino dell'Undicesimo di Vertov, che sembra realizzato da Saul Bass, esplicita come l'estetica portasse a quella vertigine che un potere calcolatore, e che perciò ha perso tutti i calcoli, non poteva sopportare.

Un magnifico collegamento nel programma si è creato con i film di Gerhard Lamprecht, grande anello mancante del cinema tedesco, nella cui opera, balzachiana e verghiana, si gioca il destino dei vinti (o degli ultimi, come ben dice il titolo del programma, alludendo anche al capolavoro friulano di Pandolfi). Cinema che esplicita la preoccupazione langhiana per le giovani generazioni, non a caso rovesciatasi nel fondamentale Hitlerjunge Queux di Steinhoff (regista su cui il progetto di Horst Claus, quest'anno accantonato, merita altre tappe di riscoperta), spostandolo anche sul mondo della prostituzione e su tutto l'universo sociale, come analizza Wolfgang Jacobsen. E ben vi si è collegato Scherben di Lupu Pick e Carl Mayer.

Bisogna almeno accennare alle altre fondamentali rivelazioni del programma: il cineasta svedese maupassantiano Gustaf Molander, di cui si sono visti quattro film notevoli (uno con grande Lil Dagover) e da riscoprire anche per i film sonori tra cui quello «remakato» da Cukor, come si è notato grazie a Roberto Turigliatto; il bel programma giapponese (con due Daisuke Ito e il film lesbico di Jiro Kawate e Nobuko Yoshiya) dove nella forse troppo distante performance benshi si è però ben incuneata una delle due versioni del grande The Blacksmith di Keaton; le meraviglie animate di Messmer, Fleischer, Terry e degli artisti sovietici analizzati da Peter Bagrov; alcuni film italiani tra cui è emerso Il gallo nel pollaio con Vincenzo Scarpetta che è forse il miglior film di Enrico Guazzoni visto finora. 

 

 

FESTIVAL - LE GIORNATE DEL CINEMA MUTO OFFRONO RARE MERAVIGLIE, INSIEME ALLA CAPACITÀ DI UNO SGUARDO SEMPRE NUOVO SUI CAPOLAVORI. ASPETTANDO L'EVENTO DELL' INEDITO WELLES

La vagabonda d'America                          

APERTURA - SERGIO M. GERMANI 

PORDENONE 

«Beggars of Life» di Wellman, con Louise Brooks, precorre i film europei di Pabst e Genina, rivelando un inedito orizzonte della frontiera, in fuga e senza nessuna sicurezza

In attesa del massimo evento wellesiano, le Giornate del Cinema Muto hanno già offerto alcune meraviglie, al di là del livello generalmente molto interessante dei programmi (ma sulla rassegna svedese o su quella ucraina sarà meglio soffermarsi a conclusione). Parliamo però di almeno tre proiezioni che segnano la scoperta di film fondamentali, ben inseriti nelle rassegne di quest'edizione ma da riscoprire anche singolarmente. Dopotutto il livello vero di un festival si gioca proprio su questa capacità di intercettare capolavori come se si trattasse della loro prima proiezione rivelatrice.

Il primo dei tre capolavori era stato addirittura già proiettato in una precedente edizione del festival ma senza la dovuta attenzione. Si tratta di Beggars of Life (1928) di William Wellman, su cui la sezione del Canone ritrovato curata da Paolo Cherchi Usai ha giocato una carta che ha dimostrato come un festival non debba spaventarsi di riproporre un film se questo può trovare un nuovo pubblico o più semplicemente un nuovo sguardo.

Il film, interpretato da una Louise Brooks alla vigilia dei suoi grandi film europei di Pabst e Genina, ci fa capire come la sua presenza in immagine potesse essere sconvolgente per degli sguardi europei. In una storia in cui viaggia da vagabonda attraverso un paesaggio americano davvero inedito, per sfuggire alla cattura della polizia perché ha ucciso l'uomo che voleva violentarla, veniamo immessi in un film in cui si perde quella certezza del paesaggio americano, fatta di frontiere e comunità da «americana»: un paesaggio senza sicurezze, in cui l'unica moralità può scoprirsi nei vagabondi, non in quelli che perseguono un crimine senza capirne nemmeno la meccanica. E la storia d'amore che ne nasce con il partner di fuga, Richard Arlen, arriva nel finale al dubbio che il vilain Wallace Beery, sorpreso dall'amore che gli appare sotto gli occhi, l'amasse ancora di più, e la conclusione della storia di questa coppia diventa una futile scena di gelosia verso un morto. 

La resa all'apparire di una coppia in amore rende il film più sorprendente di un Lang, regista che Wellman riesce a anticipare ed eccedere anche nella sequenza di un tribunale di vagabondi, che manifestamente precorre M, quanto la vicenda della fuga apare come un preludio di Sono innocente. 

Wellman si conferma grande tra i grandi: in altri film, lo sappiamo, è capace di eccedere anche Bresson. Un film, quello visto a Pordenone, profondamente americano e allo stesso tempo capace di ispirare il miglior cinema europeo di quegli anni, come la vicenda successiva di Louise Brooks rivelerà. Qui lei veste da uomo e da donna (e uno dei vagabondi riconosce che è donna letteralmente dalla cavità del suo fondoschiena, rendendo il film tra i più hard mai visti), si offre con un corpo ferito e claudicante, ha uno sguardo che pur giungendo all'amore corre anche più lontano, nel fuori campo.

Raramente a Pordenone abbiamo anche visto una proiezione con un accompagnamento musicale così giusto e affascinante: bisogna andare nel ricordo a quella con cui Neil Brand accompagnò The Big Parade per trovare qualcosa di altrettanto sensibile quanto l'accompagnamento qui udito di Gunter Buchwald, ormai massimo musicista delle Giornate.

Il secondo capolavoro assoluto è stato uno dei titoli «educativi», o di propaganda georgiani, Dili sati stuti (Dieci minuti al mattino). Aleqsandre Jaliashvili (di cui apprendiamo che lavorerà con Kalatozov e Medvedkin prima di essere emarginato) realizza nel 1931 un film che, esaltando la ginnastica con le parole di Lenin, porta a chiederci se Makavejev l'avesse visto prima di realizzare Verginità indifesa. Come e più che in Makavejev, questo film georgiano travolge l'ideologia in presenza di corpi, maschili e femminili (stupenda l'attrice di cui forse non conosceremo mai un nome!).

Terzo capolavoro, restaurato dall'archivio viennese con materiali ritrovati a Trieste, è il documentario anonimo sulla visita a Trieste dell'imperatore Carlo I. L'anno prima della fine della guerra, questo viaggio apolide nella Trieste «occupata», con l'imperatore che visita truppe, guarda da canocchiali verso paesaggi invisibili, offre rassicurazione senza visibilmente viverla, è una delle immagini più vere e rivelatrici della «Finis Austriae». Alla vigilia dell'anno di celebrazioni nell'anniversario dell'inizio della prima guerra, questo film che un collezionista triestino aveva conservato, si dimostra un ritrovamento fondamentale per come il cinema riesce a rivelare la verità oltre i miti, nazionali o imperiali.

imilleocchi newsletter

Tieniti aggiornato sulle nostre ultime novità!

Condividi contenuti

Privacy Policy per i visitatori del sito

Secondo quanto previsto dalla Legge 124/2017, l'Associazione Anno uno rende pubblici online gli importi di natura pubblica ricevuti nel 2018.