Presentazione XV edizione

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I mille occhi - Festival internazionale del cinema e delle arti XV edizione


Anteprima Roma, Cinema Trevi - Cineteca Nazionale, 13-14 settembre 2016

Trieste, Teatro Miela 16-22 settembre 2016

 

 

Una o due cose tra mille

Note di messa in scena

di Sergio M. Grmek Germani

 

 

E giunge l'onda,

ma non giunge il mare.

Clemente Rebora, Canti anonimi

 


Quindicesima edizione: festeggiamo! La "comunicazione" vorrebbe qui che si spiegassero i perché e percome della nostra storia, quella che confidiamo venga invece scoperta dai mille spettatori. Perché ci attrae di più l'arrestarsi di Rebora alla sua ultima conferenza, o il perdersi e perdere fogli di Antonin Artaud nella sua conferenza di ritorno dalla follia. Meglio scriverebbe di Artaud l'amico Alessandro Cappabianca, altro sodale di Michele Mancini cui dedichiamo un omaggio. Sarebbe certamente più facile attrarre l'attenzione se dedicassimo una personale a Paolo Sorrentino.

Ma, nell'utopia che ci sia un pubblico oggi che non si limita a minestre riscaldate (buone solo nel caso di una ribollita o di una jota), seguiamo imperterriti nelle nostre passioni, e persino ne incoraggiamo altre. Dire Artaud fa pensare subito (per l'ennesima volta) a Dreyer, suo complice nel distogliere dal sacrificio della Falconetti. Dreyer la cui opera dopo La passion de Jeanne d'Arc e Vampyr fu un ricovero nella clinica Jeanne d'Arc. E poi l'impossibilità a divenire mai cineasta italiano perché l'africano Mudundu fu deviato a routine coloniale ancora italo-francese (ma la guerra è vicina), e perché l'ultima speranza di realizzare il suo non virtuale Jesus non fu raccolta dalla Chiesa post-giovannea. Ci sono quindi, nel cinema e nella vita, sospensioni in cui si trova un destino (Rebora, Artaud) ma più spesso arresti violenti dovuti a imposizioni economiche. Credere a ciò in cui crede Ordet porterebbe la società a quell'insostenibilità economica che solo il mutarsi dei vivi in morti consente. Un'utopia come quella dei cosmisti russi (Fëdorov in particolare), di ricostruire i corpi degli antenati in altri spazi, fu resa parodica dal comunismo staliniano e destalinizzati voli spaziali con tanto di Laike sacrificali. Va reso onore all'accanimento con cui all'epoca Amadeo Bordiga richiamò alla gravità terrestre, come va reso al Rossellini apocalittico tra L'età del ferro e l'intervista ad Allende. Ma anche all'apocalittico Guareschi che in La rabbia eccede Pasolini.

Rossellini nel frammento girato per Santa Brigida con Ingrid Bergman realizza il più esemplare rapporto tra ciò che nel cinema si trattiene e i fuoricampi infiniti di distruzione. Oggi li vediamo addirittura moltiplicarsi, talvolta testimoniati da immagini che ci rendono spettatori impotenti.

Proporre oggi nel festival alcune delle immagini più sensibili (o persino il suono senza immagini di un programma radiofonico) sul terremoto che 40 anni fa colpì il Friuli, s'intreccia per noi con il manifesto di cinema dalla pietà all'amore del grande Luca Comerio (di cui si vedrà a incipit del programma romano un film sul carnevale di Nizza, che oggi non potrà non ricordare le distruzioni di un'autodistruzione resasi criminale nell'abbandono a vite ulteriori come premio). S'intreccia anche con il nuovo irrompere di scosse nel paesaggio italiano. S'intreccia con il superamento di una natura nemica compiuto da due grandi cineasti italiani (Renato Dall'Ara, Walter Santesso) che Dario Stefanoni rabdomanticamente coglie nel territorio da riscoprire dei cineasti veneti: sorprende come pochi si siano accorti della forza sovversiva di Santesso (più vitale di tanto movimentume veneto di destra e di sinistra), e dell'incanto a tratti da Jacques Demy (le canzoni, Castelnuovo nell'improiettabile Mercanti di vergini) di Dall'Ara.

L'Italia, come Rossellini sapeva più di tutti, esige viaggi infiniti. Ne sono all'altezza Vittorio Cottafavi (che collaborò con il grande scrittore carnico Siro Angeli) e Raffaello Matarazzo, di cui quest'anno per l'anniversario si rievocherà altrove un'altra minestra riscaldata (cinema popolare...) che invece da noi la visione di L'intrusa orienterà meglio. Altro film dreyeriano, con la bambina già troppo adulta (Paola Quattrini) che domanda come sia possibile (da parte di Amedeo Nazzari) amare una morta. In pochi altri film inoltre la violenza dell'amore come possesso dell'uomo sulla donna, intrecciato a ruoli sociali, è così trasparentemente reso e superato. Si tratta di un film anch'esso acquatico, con una barca che fa approdare la donna da un altro mondo e da un'altra vita. Film che poi si specchia nella da noi già amata La maestrina di Giorgio Bianchi.

Acquatico è anche il Wisbar di Nacht fiel über Gotenhafen, in un racconto epico che parte dai segni della catastrofe nazista raccolti in una catastrofe di nave affondante: con tante figure femminili, a contraddire lo schematismo secondo cui nel dopoguerra egli si sarebbe dimenticato dei suoi grandi film al femminile degli anni '30 (che proiettammo l'anno scorso). Il gruppo femminile nel ventre della nave oscilla tra Genina, La nave delle donne maledette di Matarazzo e i gruppi femminili di Mädchen in Uniform che Wysbar produsse. Ma ci ricorda anche il crollo raccontato da Pabst in Der letzte Akt, non solo grande film (tutt'altro che riconciliantesi con il nazismo come da favolette smentite dalla rassegna curata da Olaf Möller a Locarno e in progress in varie edizioni dei Mille occhi) ma anche grande opera di pensiero, che esplicita e distanzia la condanna della natura alla distruzione come unico suo possibile destino. Spero che lo presenteremo in futuro (come lo spero per Forugh Farrokhzad, e per il film che dà il titolo all'edizione, della grande attrice giapponese Kinuyo Tanaka che fu anche la maggior regista - intendiamo "il maggior regista" - giapponese). Intanto siamo lieti di proseguire la nostra riscoperta di Harald Braun (con due film magnifici, tra cui Herz der Welt, dal titolo griffithiano, che evoca la vicenda ante-grande guerra di Bertha von Suttner, cui si ispirò Dreyer per una delle sue prime sceneggiature, tratta da Giù le armi), e di Wisbar/Wysbar (con un altro capolavoro oltre a quello citato). In un altro percorso l'amatissima Marina Pierro (con cui c'incrociammo qualche anno fa nel non diffuso cogliere l'impronta dreyeriana in Borowczyk) renderà presenti in Himorogi le immagini che di lei trattenne ed esaltò il maestro. Siamo veramente felici dell'anteprima del suo (col figlio Alessio) trittico per la prima volta riunito (e riedito per i primi due film). In Himorogi le citate immagini girate da Borowczyk rendono, dal fermo al movimento, uno dei sensi profondi del cinema.

Come lo rende un altro sguardo femminile che accogliamo, quello di Elvira Gial-anella in Umanità, film unico tra i vari notevoli che tra le due guerre si muovevano dal ricordo alla premonizione.

Nel programma sono presenti anche film di cineasti maschili attraversati da cocreazioni femminili, da Vlado Škafar alla figura oltre il cinema eppur di cinema di Siro Angeli, che nella magnifica videointervista di Ermes Dorigo evoca la maestra Elisa Davanzo e le due mogli poetesse, Liliana Guidotti e Alida Airaghi; e conclude la trasmissione con un «non ho avuto occasione di parlare del rapporto con mia madre». Ma lo stesso Maria Zef riscrive in splendido friulano la narrazione della veneta Paola Drigo, rivivendola poi come attore, per una geniale scelta di Cottafavi che entrò nell'anima di Angeli, al punto da suggerirgli il volume di poesie Barba Zef e jò.

Insomma questa scheggia di programma che sono I mille occhi 2016 (tra tanti tasselli rinviati) è forse sufficientemente indispensabile per trovare almeno mille spettatori. Tra i Figli di nessuno adottati da Simone Starace vedremo tra l'altro un film corealizzato dal triestino Giacomo Gentilomo (altro anniversario) che s'inserisce, con la storia dell'attentato a Roosevelt, nelle trame di controstoria che vanno da Lang a Frankenheimer; e un film di un cugino di Genina e Camerini che va riscoperto, Giulio Morelli (altro film di coregia, a renderlo ancora più figlio di nessuno).

Di Camerini vedremo un ritrovamento che sa di miracoloso, per noi uno dei film più ricercati di tutto il cinema italiano, Il documento. La collezione Buffatti donata alla Cineteca del Friuli lo conteneva in una completa copia 16mm, e al festival lo proietteremo in anteprima. Termine più che mai consono a questo film che nella finzione si apre con l'inizio del XX secolo, ed è realizzato nel 1939: come altri Camerini non canonici esso distilla il senso del tempo, delle età dei corpi, in nessun altro cineasta così centrale pur essendo quintessenziale del cinema. Vi compare una magnifica Maria Denis, attrice tra le maggiori del cinema italiano (ne vediamo una splendida immagine da un fotogramma del film, in apertura a questo testo), e un mostro sacro della recitazione, Ruggero Ruggeri, forse mai così grande come qui, a livello del Mozžuhin da esperimento kulešoviano (anche un'immagine crepuscolare di Ruggeri illustra queste pagine).

Ecco come si costruiscono I mille occhi: scoprire che l'ultimo film con Ruggeri fu sorprendentemente il primo lungometraggio di Carmelo Bene, al di là delle possibili casualità, ci è subito apparsa una folgorazione. Perché dunque non programmare stavolta (anche se potevamo farlo più volte) questo capolavoro del 1968, che è tra i più perduranti di quell'anno emblematico? Soprattutto siamo lieti di poterlo programmare nella prima e più lunga versione presentata all'epoca alla Mostra di Venezia, e invece abbreviata, certamente con intelligenza d'autore, per l'uscita in sala; e di poterne presentare i rushes muti stampati in bianco e nero. E dunque, in un altro incontro altissimo tra creazione maschile e femminile, come non invitare per l'occasione Lydia Mancinelli, madonna del suo cinema?

Cinema italiano oltre il muro del tempo: per questo festival si tratta di uno degli obiettivi più convinti, e non unicamente per il cinema italiano, per smentire l'idea che solo il cinema appena realizzato sia rivolto all'oggi. Lo possono essere film di ogni epoca, che oggi si rivelano nella loro vera luce. Ecco perché ribadiamo che non sono i restauri digitali a rendere dei film contemporanei, anche se talvolta possono aiutare. Ma una copia d'epoca rimasta per decenni non vista arriva oggi con una presenza fisica percepibile davvero per la prima volta.

Il programma che propone la preziosa raccolta di film dell'Officina Filmclub depositata nel Fondo Ciro Giorgini alla Cineteca del Friuli, ci sposta verso gli anni '70 e oltre, con un film italiano di Glauber Rocha che vaga tra influssi udigrudi, la musica del Tony Scott mareschiano (in programma con i suoi film su Franco Scaldati) e la tenera Juliet Berto, calati in una Roma che prelude a quella nicoliniana di cui L'Officina è un monumento. Ci spingiamo poi verso il '77 con il capolavoro di Grifi e Sarchielli (nella copia personale di quest'ultimo) Anna che ancora una volta sorprenderà per il suo farsi classico a partire da un mondo tra i più transitori. E oltre, un tardo film di Luciano Emmer che, in doppia versione italiana e francese, chiude la prima e l'ultima notte del festival, lasciandoci al sogno vagante di presenze femminili notturne (tra cui Paolina Bonaparte e la stessa Villa Borghese come entità femminile).

Tornando a Camerini, egli sarà d'ora in poi presente nel festival anche attraverso la figlia Manitta, entrata nel nostro direttivo, del quale siamo orgogliosi, e che accoglie anche Marie-Françoise Brouillet, compagna di Valerio Zurlini divenuta amica del festival in occasione della personale che dedicammo a uno dei sommi cineasti italiani. Con quella personale scoprimmo film e versioni ignorate, anche per merito delle segnalazioni di Gianni Da Campo. Riteniamo che quella personale (con alcune riprese nella rassegna Titanus di Locarno) sia la sfida da cui partire per approfondire la conoscenza del regista, e speriamo che ogni futura personale ne scopra di più, e non si limiti a riscaldare la minestra.

Nel nostro direttivo sono entrati anche giovani ricercatori e apprezzati esponenti della politica culturale cittadina, tra i non molti che hanno voluto far crescere davvero la cultura. Menzioniamo soltanto Michele Zanetti, che con l'operazione Basaglia ha segnato Trieste nel modo migliore; ma che per chi scrive è stato tra i primi parlanti di cinema nella frequentazione del Cineforum Triestino. Giacché I mille occhi, pur essendo segnati piuttosto da scoperte critiche francesi (e insuperabilmente di «Présence du cinéma») hanno sempre voluto confrontarsi con le passioni vere della critica italiana.

La presenza di Zanetti ci consentirà nel programma anche uno dei più adeguati omaggi a Guido Botteri, che fu tra gli spettatori attenti del nostro festival (e inoltre, tra le tante cose, promotore della produzione di Maria Zef per la Terza Rete regionale di cui fu direttore di sede; studioso di quel Diego de Henriquez che Trieste gestisce al ribasso; curatore di una collana di monografie di personaggi della regione che includeva volumi di Boris Pahor, Alojz Rebula, Ermes Dorigo e altri).

Oltre che a Guido Botteri la presente edizione vuole essere dedicata ad alcuni altri scomparsi che attraverso il cinema ci furono compagni di vita: l'amico romano Paolo Zapelloni (all'anteprima al Trevi dell'anno scorso Paolo Luciani fece un intervento commosso informandoci delle sue gravi condizioni); Elena Fava che ci raggiunse per l'omaggio al padre; Gianni Rondolino di cui ammirammo la tenacia nel voler rendere Torino luogo di vera ricerca cinematografica; e Annamaria Percavassi, con cui condividemmo molte esperienze, da La Cappella Underground al programma televisivo Una cineteca per una regione a quattro non dimenticate retrospettive che potemmo curare per l'Alpe Adria Cinema da lei diretto; poi ci furono ombrosità, ma Annamaria è stata tra le spettatrici più fedeli dei Mille occhi come chi scrive lo rimase del suo Trieste Film Festival; per arrivare infine all'insediarsi insieme nella Casa del Cinema, per merito di Maria Teresa Bassa Poropat. Si aggiungono alcune presenze del cinema che abbiamo amato: Maureen O'Hara, Nicoletta Machiavelli, Silvana Pampanini, Moira Orfei, Marina Malfatti, Nicole Courcel, Franca Faldini, Patty Duke (ma poi ecco che scopriamo scomparsa anche Mandy Rice Davies, che sconvolse la nostra pulsionalità adolescenziale). Franco Citti e Giorgio Albertazzi sono per noi intrecciati anche al citato omaggio a Zurlini, il primo per uno dei film più sottovalutati, il secondo anche perché generosamente introdusse per noi al Trevi sia Zurlini che La rossa di Käutner. Tra i registi ci ha colpito la perdita di Andrzej Zulawski, il cui ultimo capolavoro merita un simbolico Premio Anno uno speciale; di Michael Cimino, ingiustamente abbandonato dal cinema; di Jacques Rivette, Eldar Rjazanov, Jan Ne ̆mec, Abbas Kiarostami, Mihovil Pansini, Gene Wilder, Carlo Di Carlo, e quanti colpevolmen- te qui dimentichiamo.





 

 

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