Presentazione XIV edizione

Forse ci lasciamo troppo tentare dalla molteplicità. Per qualcuno dovremmo ancora "spiegare" perché I mille occhi, o perché Anno uno, o motivare la scelta del titolo di edizione (Apparizione). Ma la rete (chiedendo scusa di un termine ormai sinonimo di internet) di rapporti che il cinema continuamente moltiplica ci tenta troppo per non aggiungerne almeno qualche tassello. Questo testo quindi non replica a titolo Apparizione ma fa riferimento a un grande cortometraggio di Dreyer (in beffarda traduzione letterale Raggiunsero il traghetto) "perché" esso contiene, come tutti i film del regista, qualcosa di quintessenziale per il cinema. La corsa in moto della coppia di quel film per raggiungere in tempo un traghetto trova il confronto con la morte, non perché Dreyer sia tetro o per una scelta horror di genere: in quella corsa c'è tutto il senso del cinema, del suo eleggere il movimento (artificiosamente reso nel cinema dalla persistenza delle immagini fisse di fotogrammi, e cionondimeno vero: almeno quanto lo è il paradosso della corsa di Achille con la tartaruga) quale fuoriuscita dal dominio della morte. Il risveglio dalla morte della protagonista di Ordet si realizza nel suo tornare a muoversi nel ritorno in vita, e nessuna immagine fissa può rendere la liberazione della prigioniera cui vengono slacciati i polsi in Vampyr. Il cortometraggio di Dreyer evocato nel nostro titolo s'impone all'attenzione anche per la presenza nel programma del film di Wysbar sulla traghettatrice Maria, che come molto cinema del misconosciutissimo regista tedesco è tra i momenti più evidenti di quanto intendiamo per "expanded Dreyer": essendo stato il danese un regista di pochi film "intransigenti" lo si è a lungo considerato una monade, scopriamo invece che la forza del suo cinema trova eco in molti altri film (anche di genere) di varie nazionalità, e quest'anno ci soffermiamo su un ignoratissimo cineasta italiano (Palella) e su Wysbar. La cui genialità è stata di partire senza farsene intimorire da alcuni massimi capolavori (Anna und Elisabeth è una splendida variazione su Mädchen in Uniform da lui prodotto, con qualche eco del paesaggio italiano in Murnau, mentre Fährmann Maria più ancora che Der müde Tod di Lang elegge a riferimento il Vampyr di Dreyer). Del cinema andrebbe riscoperta la capacità di lavorare "in minore" sui film maggiori: pensiamo ad esempio nel cinema italiano a due cineasti di cui ci siamo spesso occupati e ci occupiamo ancora, il Genina che rispetto ai due grandi capolavori di Pabst con Louise Brooks non temette di "aggiungervi" il suo Prix de beauté; e il Giorgio Bianchi che seppe riferirsi in La maestrina sia a Griffith che a Dreyer. Negli exergo si è voluta unire quella frase di rivolta dal film di Wysbar ai discorsi nazisti o financo a quelli di culturalistica assunzione della germanicità (frase che per il suo andare contro i tempi può aggiungersi alla révolte dichiarata da Aurenche e Bost e Autant-Lara in piena occupazione in Douce, ai massimi capolavori contro il potere in epoca di seconda guerra mondiale Dies irae di Dreyer e Sissignora di Poggioli, e ai movimenti inversi rispetto alle derive della storia in Once Upon a Honeymoon di McCarey - geniale anche il titolo italiano del film: Fuggiamo insieme - e in Un pilota ritorna di Rossellini), uniamo la frase di Wysbar appunto all'altezza nichilistica di Lang che il "nostro" Gonçalves cita (sorprendendoci per il fatto che nei suoi due unici film assume metà del poker macmahoniano, mentre l'altro suo riferimento di cinema fondamentale è Splendor in the Grass di Kazan, tutti autori insomma che eccedono malintesi canoni cahieristi). E infine uniamo queste frasi al terzo exergo da uno dei massimi capolavori di Ermanno Olmi, cui dedichiamo un omaggio che vorrebbe essere anche più ampio, per indicare come il suo recente torneranno i prati non sia solo un "film da rispettare" ma un massimo capolavoro in cui precipita tutto il riferirsi alle guerre del suo cinema (anche nel giovanneo E venne un uomo) al punto da ripetervi la frase udita in I recuperanti («la guerra è una brutta bestia, gira il mondo e non si ferma mai»). Ci sembra che questo triplice exergo (culminante nella frase antitombale dell'ultimo Dreyer), limitantesi a raccogliere tre frasi da film che si proiettano nel festival, contenga tutto il registro di confronti tra l'essere e il nulla di cui il cinema è terreno massimo anche per il pensiero, essendo tutto il suo orizzonte più profondo riassunto nella dichiarazione di poetica e ontologia contenuta in The Bells of St. Mary's di McCarey ovvero quel to be che vi si indica come scelta, in risposta a tutte le incertezze dell'arte e del pensiero occidentale più alti (da Shakespeare e Calderón a Leopardi e Borges, congiungendosi invece a Dante). Con una sintesi un po' a effetto, si potrebbe dire che il traghetto da raggiungere è proprio il cinema, per un viaggio di ritorno in vita che tutti i grandi film affrontano. E in ciascuno di essi agisce l'auroralità dell'apparizione, la capacità di accogliere presenze che è quanto rende il cinema a un reale più del reale. Il piccolo film di Jean de Limur (e Aldo De Benedetti) omonimo, in cui Nazzari appare come se stesso, s'incontra miracolosamente con quanto appare nel più struggente capolavoro di tutto il cinema italiano, il citato Sissignora di Poggioli, in cui abbiamo il sussulto di scoprire che il personaggio della protagonista interpretata da Maria Denis è nata in un luogo ligure che si chiama Apparizione e da cui tutti gli eventi del film (a parte il desiderio d'amore di Elio Marcuzzo) ne allontanano il ritorno. E tutto il cinema capace di sorprendere, e non di agire invece su dei modelli peggio se formali, si fa muovere dallo stupore di riconoscere come in esso le cose non cessino di apparire. Un grandissimo regista tuttora da riscoprire, l'italo-greco Stavros Tornes (l'amico Gian Piero Rizzo vi sta dedicando un film), è forse l'essenza di questo stupore nel cinema (più ripetibilmente la coltiva oggi nel cinema italiano Tonino De Bernardi). E l'esito estremo ed esplicitante del cinema che si rese l'hardcore, al di là delle sue ignoranze e cialtronerie, è un luogo di verità prolungato oggi dall'universo della rete, che realizza nel modo più vero il programma warholiano secondo cui ciascuno si divinizza per il momento in cui si rende immagine; la potenziale infinità di selfistici o webcameristici creatori e fruitori rende la rete il più adeguato purgatorio rispetto all'esigenza del cinema di dare alla presenza una perdurante forza. I maggiori autori di oggi (perché il nostro far tornare il cinema del passato li fa tornare appunto all'oggi) hanno cominciato a confrontarsi non come pura scorciatoia creativa col digitale bensì con le mutazioni della sua immagine rispetto alla solidità chimica della pellicola. Su questo bisogna chiarire che del grande Rossellini va riscoperta nel modo giusto la duttilità verso formati e regole del cinema: egli non è un banale relativista, egli giustamente subordina il cinema alla presenza viva e umana ma per esaltarla in ogni "supporto" e canale: cinema e televisione, cinema e spazio museale, cinema e psicodramma... ed anche cinema ed agire politico. La "disponibilità" rosselliniana a riferirsi ai più diversi interlocutori non gli ha mai impedito di svelare la verità, dal "fascista" Un pilota ritorna ai film resistenziali e post-tali (con il culminante Era notte a Roma), all'autentico conflittuale dittico che ci appare oggi costituito da Anima nera e L'età del ferro, a quell'Anno uno che ha debordato sia la DC che gli inadeguati prolungatori del Sessantotto, fino al film ONU da noi proiettato l'anno scorso, A Question of People, che va tenuto presente nel programma di quest'anno quale sottofondo permanente. Vedremo infatti quest'anno vari film italiani, provenienti dalle più compromissorie committenze, che il cinema spinge a dire la verità. Possono essere opera di grandi autori (Comerio, Genina, Camerini, Cottafavi, altrove Matarazzo) oppure di "servitori" che il cinema porta a non mentire. Un film in costume non si sa bene come "supervisionato" da Rossellini, L'invasore di Nino Giannini, interpretato dalla "diva del regime" Miria(m) di San Servolo, viene completato solo nel dopoguerra con interpolazioni del Kolberg di Veit Harlan, cineasta della distruzione quanto Genina, anche se nel tedesco si arriva ad abbracci con la morte da cui l'italiano vuole allontanare. Vedremo soprattutto quest'anno un gruppo di film che sull'Africa e sui temi oggi impellenti dell'islamismo offrono immagini rivelatrici. Comerio sconquassa le radici della "liberazione" coloniale. Camerini, passando per Zuccoli, può ben accogliere la fascinazione dell'islam che s'interpolò col fascismo ma vi sovrappone la propria fascinazione tolstojana e flaubertiana, e allora la sequenza di Kif tebbi dei volti e corpi femminili scoperti del velo è forse di tutta la storia del cinema l'immagine da "propagandare" oggi contro i fondamentalismi. Genina, il cui Bengasi solo evochiamo, avrebbe rivelato la necessità di confrontarsi con la storia come macchina di distruzione. L'Alessandrini scritto da Cottafavi Abuna Messias ci introdurrà agli intrecci interreligiosi coniugati con l'universo coloniale. E un piccolo film postcoloniale e "missionario" ritrovato come Okiba non vendermi!, unico lungometraggio di Gianni Fontaine, è nella sua ingenuità umanitaria e d'illuminismo cattolico un grande gesto di cinema, che rende persino l'interpretazione dei corpi africani nelle voci del doppiaggio non un'omologazione ma un "de te fabula narratur" rivolto allo spettatore. Questo gruppo di film ci condurrà allo straordinario programma dell'Archivio fondato da Paolo Gobetti, in cui abbiamo voluto unire Il Duce a Trieste (nel discorso che non prolunga solo le leggi razziali ma anche l'ultima impresa coloniale, coniugate con un'idea di sviluppo industriale su cui il fascismo si rese quintessenza dell'industrializzazione capitalistica; ma non esiteremo a scoprirvi anche le astuzie del potere per esempio nel sedurre il femminile, giacché non è il politicamente corretto odierno che per primo suggerisce la doppia interpellazione di genere ma come udremo è il nostro Duce - per parafrasare l'Unser Nazi di Robert Kramer e Thomas Harlan - a ripetere ogni volta «triestini e triestine!») alla videointervista con l'anarchico triestino Umberto Tommasini, nella quale lui e l'intervistatore, libertariamente porgente il microfono, si dimenticano felicemente che quello che fanno è cinema, a entrambi preme porgere parole di verità. Il discorso totalitario del primo film e il dialogo alla pari del secondo si metteranno a confronto da soli nel festival, e sveleranno meglio di qualche pregevole saggio che cosa è successo nel passato che arriva a oggi. Tommasini è stato un nonprotagonistico testimone di quella tradizione anarchica che ha avuto in Italia figure luminose come Cafiero, Malatesta e Camillo Berneri (con la figlia e la compagna che ne prolungarono la presenza), capaci di scelte libere da tutti i totalitarismi. Anche sulla prima guerra mondiale su cui continuiamo a scoprire film imprevisti, pur nelle oscillazioni di un Kropotkin (ma non diversamente da Gramsci e altri in campo marxista dove invece sono gli opposti Bordiga e Tasca ad aver condiviso con Lenin la lucidità), è stata la tradizione anarchica a saper prendere meno abbagli. Di quella tradizione oggi può convincere meno solo un ateismo che talvolta si manifestò con troppo sottolineata certezza, ma va riconosciuto che sia nelle vicende spagnole che in quelle sovietiche il bisogno di ribellione a Dio ha un fondo d'irrequietezza dreyeriano, non un autosoddisfatto offrirsi un mondo d'irresponsabilità. Per il nostro festival, che si è inaugurato alla prima edizione con un omaggio a Jean Vigo alla presenza della figlia Luce, l'attuale omaggio a Tommasini compie un percorso non estraneo all'assenza di saperi precostituiti che caratterizza le nostre scelte. Il gruppo di film africani del programma ci conduce però anche al cinema portoghese, laddove la rivoluzione dei garofani (forse l'unica rivoluzione politica del '900 che non ha ingannato) ha accolto sia la verità del pathos di cui il Non di Oliveira è il luogo più alto, sia lo splendore anticoloniale di Amilcar Cabral, con Lumumba e poi Sankara il leader africano più essenziale (sul secondo, come su tante altre vicende storiche, è rivelatore un regista italiano di cui sempre più scopriamo la grandezza, Valerio Zurlini, il cui Seduto alla sua destra diventa oggi capolavoro imprescindibile). Tra i protagonisti della rivoluzione portoghese c'è stato Vasco Gonçalves, padre del nostro Vítor che insieme alla madre lo unisce in un particolare ringraziamento alla fine del primo film, al cui interno gli echi africani sono belli come tutto il resto, e passano anche per la creazione radiofonica di cui quel film è splendido prolungamento. Il destinatario del Premio Anno uno di quest'anno, nel suo sovrano accogliere le vicende della storia, collega il premio di quest'anno (oltre che all'altro grande portoghese che lo precedette, Paulo Rocha) al trittico di autori tedeschi che siamo altrettanto fieri e onorati di aver premiato: Schroeter, Thomas Harlan, Wildenhahn, il secondo peraltro intrecciato anche alle vicende della rivoluzione portoghese col magnifico Torre Bela mentre il primo ha realizzato il suo ultimo grandissimo Nuit de chien grazie al produttore portoghese Paulo Branco. Poiché siamo in genere restii a credere nelle spiegazioni riguardo ai criteri delle scelte del programma (ma non certo per esoterismo bensì per fiducia nella capacità di tutti i pubblici di orientarsi e di competere con la nostra voglia di scoprire e di farci riorientare a ogni proiezione, come fossimo i frati di Francesco giullare di Dio che cadono rivolti verso tutte le direzioni) cogliamo occasione per proporre a chi ci legge un testo di autopresentazione chiestoci recentemente da Piero Del Giudice per la rivista ticinese che dirige, «Galatea», dal bel nome mitologico che a noi evoca anche Nello Santi, Bava e il peplum. Ecco quanto abbiamo scritto intitolandolo Festival come forma festiva della presenza del cinema nella vita: Si è trasformata nel tempo l'idea della forma festival. Nata all'inizio degli anni '30 a Venezia, raccoglieva i modelli di fiere ed esposizioni universali, rivolgendosi innanzitutto ai professionisti (produttori, registi, giornalisti), con la necessaria benedizione del potere politico. C'era ovviamente anche un pubblico ma piuttosto di invitati o occasionali curiosi. I grandi festival internazionali affermatisi nel secondo dopoguerra (Venezia, Cannes, Locarno, Berlino...) hanno coinvolto un pubblico sempre più largo, al punto che di recente i "bollettini" a fine festival segnalano soprattutto dei numeri (biglietti e abbonamenti venduti) con un cortocircuito rispetto agli "echi" (capacità di intercettare film che avranno successo e magari qualche premio Oscar). Questo modello di grande festival generalista, che ovviamente ha il pregio di concentrare in un breve periodo tante cose da vedere e tante persone da incontrare, si è lasciato alle spalle l'idea che il maggior teorico del cinema, André Bazin, ebbe l'intelligenza di formulare negli anni '50, quella del festival come laico ordine monastico in cui delle persone intensamente motivate trovavano occasione di confronto sulle passioni. Era chiaramente l'intuizione di una mente aperta, non una norma dogmatica, Bazin stesso avrebbe auspicato l'allargamento a un pubblico sempre più ampio: ma di quell'idea la fertilità va recuperata. Era un momento in cui i primi storici del cinema e le nascenti cineteche tendevano a iperselezionare gli oggetti degni di attenzione; Henri Langlois dirà con acutezza (riferendosi alle scelte critiche di Brasillach) che il cinema allora era così ricco che ci si poteva permettere di ignorarne molti tesori. Rispetto a critici anche di grande personalità (in Francia, in Italia e altrove) si dovette arrivare a uno sguardo basato su una vera comprensione di «che cos'è il cinema» con la «politica degli autori» tra anni '50 e '60 (nei «Cahiers du cinéma» ma in dialettica con il "positivismo" di «Positif») che attraverso scelte anche contrastanti approderà alle geniali scelte cinefile di «Présence du cinéma». Tutto ciò è oggi patrimonio imprescindibile, ma il bisogno di estendere le attenzioni a tanto cinema rimasto inosservato anche da parte dei maestri della critica non è certo eclettismo o sola acribia di studio. Perciò appare necessario superare il recinto che i festival maggiori pongono tra cinema del presente e opere del passato pur dedicandovi (sempre meno) delle «retrospettive». E se Venezia inaugurò nel nome il riferimento all'«arte cinematografica» oggi il cinema già appartiene (come anticipò Rohmer critico) a un universo di arti con molti scambi. I festival medi e piccoli ritengono di dover dare un senso alla propria individualità con delle specializzazioni (territoriali, di genere ecc.). Costituendosi nel 2001 a Trieste, l'Associazione Anno uno (con chiaro inchino al film più maltrattato di uno dei massimi cineasti, Roberto Rossellini) ritenne invece di varare un festival altrettanto "generalista" dei maggiori ma che coltivasse la tendenza di riscoperte da fare con il pubblico durante questo momento festivo di un'attività che si prolunga sull'anno, e nello stesso nome prescelto (I mille occhi) si volle indicare la molteplicità di sguardi che il cinema contiene e che la molteplicità di spettatori può godere di moltiplicare. Lo scrivente, che da 14 edizioni lo dirige, partì da rassegne ospitate da altri festival e da un numero zero come «L'unica grande passione» (adesione paradossale a una frase dell'altro massimo cineasta, Dreyer) cercando di trovare, con collaboratori sempre più estesi, una concentrazione di proposte intrecciate, non di eventi staccati seppur coesistenti. Il cinema, arte del reale, rivela di incontrarsi con tutti i campi della vita, e così da anni, senza attendere anniversari, si percorre la riscoperta di opere riferite alla grande guerra, quest'anno persino nell'involontaria duttilità di un film di propaganda fascista come Camicia nera che diventa beffardo e acuto rivelatore della sconfitta dell'Internazionale. E come in passato per Franco Basaglia, Diego de Henriquez e lo stendhaliano Bruno Pincherle, quest'anno si rende protagonista l'anarchico triestino Umberto Tommasini. Tra riferimenti "locali" e presenze internazionali (dal premio al portoghese Vítor Gonçalves a Niki de Saint Phalle) l'unità è nella molteplicità di sguardi che la forma festival accoglie e incoraggia. Ci ricolleghiamo a questo testo per aggiungere qualcosa sull'altro citato personaggio internazionale (ma più volte legato all'Italia) che è Niki de Saint Phalle. La rappresenterà al festival la figlia Laura Duke Condominas, che la sostituì, rispetto alla prima ipotesi di Bresson, come interprete di Lancelot du lac. I suoi due film (cui ci piacerà aggiungere in futuro quello realizzato con Peter Schamoni, ma anche l'omaggio in video musicale che le ha fatto recentemente l'appassionante Soko) sono realizzazioni tra le più libere del rapporto tra arti, e incrociano (ma in totale autonomia creativa) le compresenze artistiche di due compagni, il cineasta Peter Whitehead e lo scultore Jean Tinguely. La proposta di questa rassegna è tra i tanti doni che da anni ci offre la cineasta collaboratrice del festival Jackie Raynal, e il nome della curatrice contribuisce a inserire Niki in una costellazione che va da Baratier a Jean-Denis Bonan, da Bulle Ogier a Catherine Binet, e naturalmente tutta l'esperienza della Zanzibar. Ma i film di Niki, nel loro coniugare sbrigliatezza artistica e fondi anche di durezza di vita, s'inseriscono nel più ampio universo degli anni '70, e spingono a confronti con le più vitali (e non culturalistiche) pratiche di erotizzazione, a cui il cinema del citato Bresson non è estraneo. Ma pensiamo soprattutto a Stephen Dwoskin, a Walerian Borowczyk, a Franco Brocani... Daddy (e proprio per il trauma personale di Niki) è il frutto più fresco anche di quell'utopia del prolungare la provocazione del corpo su presenze d'ogni età, che in decenni successivi trovò il marchio della pedofilia, e che anche a distanza di tempo porta a vicende di "persistenze dell'immagine" conflittuali: pensiamo a Eva e Irina Ionesco, ma anche alle figlie di Larry Rivers tra cui Gwynne condivide il nome con l'interprete adulta di Daddy mentre la più giovane è una riscopribile Mia Martin. Tantopiù indirettamente pertinente appare l'odierno omaggio videomusicale (ben più che nell'ambiguità di una Maddie Ziegler con Sia) di Soko, che al dreyeriano We Might Be Dead By Tomorrow abbina l'adolescenziale First Love Never Die. Ma la vagina gigante che fu tra le sculture più provocanti, seppur come sempre risolte in invenzione gioiosa, di Niki ci riconduce anche all'icona courbetiana che l'anno scorso Deborah De Robertis impersonò, e rispetto a cui le scelte del nostro festival constatano di nuovo una diffusa incapacità di cogliere gli azzardi più veri, liquidando certe azioni come "mediatiche". C'è chi ha stabilito meccanici collegamenti con Milo Moiré, chi più pertinentemente con Millie Brown e le sue performance vomitanti (a espandere una delle ossessioni che più si è sviluppata con l'hard online) anche con Lady Gaga. A noi il volto di Deborah ha piuttosto ricordato qualcosa di Sasha Grey, ma la sua storia è un'altra, coinvolge una segretezza (anche di una gemellarità) che spero trovi altre tappe in questo festival. Come tante cose che sono accennate o talvolta accantonate dal programma di quest'anno, il festival vuole prolungare i propri "appuntamenti". I doni del caso che gli arrivano sono tanti. Mai, per esempio, avremmo immaginato di trovare a Trieste il massimo cultore internazionale di Richard Harrison. Persino, lo ammettiamo, non avevamo esatta percezione della personalità di Harrison negli universi del peplum e del western italiano. Siamo lieti che Giancarlo Stampalia demolisca i cliché della legnosità, e con ciò riveli ancora una volta come un corpo, una presenza vada osservata ricevendone i puncta, e ciò può includere tutte le sessualizzazioni, quella che in realtà è estranea è la postmoderna relativizzazione gender. A noi, guardando i due film in programma, l'occhio cadrà sulla sensualità di Lisa Gastoni e Marilù Tolo nell'uno, e nell'altro di una Dagmar Lassander di cui mai dubitammo, sin da quando la vedemmo aggirando i divieti ai minori nella tagliatissima versione italiana di Andrea fino a che la riscoprimmo autodoppiantesi in W la foca. In Una donna per 7 bastardi lei, complice Roberto Bianchi Montero, chiaramente devia il progetto maschile di Harrison imponendo al film una doppia centralità. Forse Harrison subì certe deviazioni ma seppe comunque sollecitarle con la sua presenza, e perciò approdò con Orgasmo nero al notevole momento del passaggio dominicano dal soft all'hard in Joe D'Amato. Altro dono ci arriva da Simone Starace, da qualche anno curatore di questo catalogo e tra gli studiosi di cinema più documentati. Inaugurando un'attività cinetecaria, che gli auguriamo di far crescere sempre più, ha subito ritrovato copie uniche e preziose di film misteriosi, italiani e non. E da Dario Stefanoni, cocuratore del catalogo, ci arrivano scoperte di cineasti italiani degni di attenzione, da Caracciolo a Castellazzi a Tretti e altri. Purtroppo molti colgono nei Mille occhi un luogo unico per coltivare scoperte. Ripeto "purtroppo" perché il festival teme più la solitudine che rischi di competizione. Le cose da ritrovare sono tante e, una volta ritrovate, sollecitano ritrovamenti ulteriori. Quest'anno a Bologna (al Cinema Ritrovato, appunto) abbiamo visto un film iraniano pre-khomeinista meraviglioso di Sahrab Shahid Saless, con un Jacques Tourneur (Great Day in the Morning) che ora ci si accosta magnificamente a Gonçalves, nella capacità di entrambi gli autori di percorrere il confine tra vita e morte. L'anno scorso a Locarno la retrospettiva Titanus che curammo non solo ci confermò certi splendori ma mise meglio in luce l'epoca di Gustavo Lombardo, padre di Goffredo, e ora vi scopriamo il ruolo fondamentale di Boris Bilinsky, che fu anche scenografo alla Scala ed ebbe durante la guerra un progetto d'esposizione ispirata all'Apocalisse di San Giovanni (poco dopo, un cineasta minore di cui solo Roberto Silvestri ha segnalato l'interesse, Giuseppe Maria Scotese, girerà un L'apocalisse al momento invisibile; ritroviamo invece la sua affascinante figlia Giulietta, modella e danzatrice, in uno dei film di Andreassi in programma). Bilinsky s'incontrò con cineasti italiani e slavi (esuli russi e polacchi, Striževskij, Volkov, Waszyn´ski diventano autori Titanus, il primo dirigendo un'attrice commovente e spesso echeggiante universi slavi, Isa Miranda, mentre il secondo dirige l'altrettanto insacrificabile Luisa Ferida). Abbiamo voluto unirvi l'ultima regia di un nostro autore d'elezione, Augusto Genina, Frou-Frou dal bel sottotitolo di versione italiana Perduta per amore, vicenda di esuli russi con un finale aeroportuale che ci evoca l'ultimo e sommo Matarazzo Amore mio qui visto l'anno scorso. Qualche anno fa anticipammo i programmi di "expanded Dreyer" con alcuni rari film italiani, e tra questi ci colpì molto, per la sua fertile naïveté, il film di Oreste Palella Caterina da Siena e quest'anno ne proponiamo altri due film sconosciutissimi: purtroppo non quello intitolato Non vogliamo morire di cui è tuttora irrintracciabile una copia. Com'è evidente, il territorio del cinema italiano ancora da riscoprire è amplissimo. Ci farebbe piacere che cineteche e cattedre partecipassero a una sinergia di ricerche. Chiaramente ai Mille occhi non interessa il grado zero della riscoperta, c'interessa il potenziale entusiasmo che essa può favorire. Però di fronte all'inerzia ogni azione è preferibile, l'entusiasmo (se gli oggetti se lo meriteranno) può sempre arrivare, oggi come oggi sarebbe importante dispiegare un po' di mezzi e di energie che contraddicano la triste sensazione che all'Italia i suoi tesori cinematografici non interessino molto di più che all'ISIS quelli di Palmira. Recentemente una studiosa americana, Ruth Ben-Ghiat, ha pubblicato un libro pregevole sul cinema imperiale italiano. Ma anch'esso sottovaluta Comerio (peraltro liquidato in poche righe in certi libri riguardanti il cinema sulla grande guerra), mentre per fortuna può avvalersi con ottimi approfondimenti dei materiali raccolti dal Fondo Genina e dal libro che dedicammo all'autore. Ciò che cercano oggi di fare I mille occhi è anche questo: dare delle possibilità ai futuri appassionati di trovare conservati sia i film che le tracce produttive di precedenti passioni. Va detto chiaramente che non abbiamo alcuna certezza di continuare quest'opera, che necessiterebbe di attenzioni che oggi come oggi si rivelano del tutto inadeguate. Ma nell'universo del cinema l'inadeguatezza è diffusa. Non cessiamo di stupirci che di certe cose ci occupiamo solo noi, o quasi. Qualche anno fa assegnammo il Premio Anno uno a Marc Scialom per il suo ritorno alla regia. Quest'anno l'avremo via skype per l'uscita del suo libro che, dopo molti rifiuti di editori francesi, l'italo-dublinese Artdigiland ha avuto il merito di pubblicare. Un libro che è anche cinema, e nel quale il nostro festival è uno dei set. Nello stesso incontro ci occuperemo di alcuni altri libri che sono anche cinema, come un grande libro lo è sempre (Gadda è molto più cinema nei suoi libri che nelle attenzioni cinematografiche). Guido Ceronetti coglie sempre l'essenza del cinema oltre la cultura del cinema. Un critico molto stimolante, Paolo Isotta, nel suo libro fa non pochi errori nello scrivere di film ma il modo in cui scrive dei musicisti che ama ha la vera flagranza che lo fa appartenere al cinema. L'omaggio a Ciro Giorgini, a cui non abbiamo voluto riservare la solita etichetta di cultore wellesiano, riguarda un'amicizia che ha condiviso molte passioni di cinema (Ford, Rossellini, ma anche il cinema italiano "sul fondo" cui egli ha dedicato una delle migliori idee di programmazione dentro Fuori orario). Per I mille occhi egli è anche colui che ritrovò La promessa, la da allora mai vista regia televisiva di Zurlini che si è rivelata straordinaria. L'anno scorso avrebbe voluto tornare a Trieste per presentare il progetto sulle sale romane, di cui i coautori ci danno ora un primo montaggio. Non sappiamo se essere contenti di poterlo precedere con la prima proiezione cinematografica (dopo la retrospettiva pesarese su Dino Risi) della sola copia 35mm di Buio in sala perché avremmo voluto vedere questo film insieme a Ciro. Il film di Risi s'unirà bene al dittico di Comencini: singolarmente si trovano riuniti i due grandi registi milanesi arrivati al cinema italiano postbellico (mentre Lattuada, che li precedette di poco, fu altrettanto immerso nella sensuale materia del cinema). La rassegna di Alice Rispoli vi unirà alcuni altri tasselli fondamentali, tra cui il film di Lombardi e Lajolo che è la ricostruzione più affascinante della vicenda Ferrania, quintessenza della matericità italiana nel cinema, con tra altre una dichiarazione splendida di Carlo Ludovico Bragaglia che dell'immagine Ferraniacolor rivendica la bellezza dell'imperfezione: e poiché egli preferiva amare gli imprevisti del cinema che sentirsene depauperato, è affascinato dalla stampa del suo La Gerusalemme liberata. E viene subito in mente che sarebbe davvero bello programmare questo suo film con l'Orlando furioso di Ronconi. Forse prima o poi lo faremo (così come di Ronconi avremmo voluto programmare la regia televisiva di Gli ultimi giorni dell'umanità da Kraus). Con il film di Gerboni avanziamo nel territorio del Super8 familiare, ma non può non colpirci quando vi appare il cartello stradale che indica «via Anna Frank, scrittrice martire». È ancora una convergenza dei nostri percorsi nella storia attraverso il cinema, che quest'anno omaggiano due cineasti uccisi alle Ardeatine, Emanuele Caracciolo e Gerardo De Angelis. Concediamoci un'ultima convergenza, dentro il festival e nei suoi rimandi: il Vincenzo Bellini, sommo musicista che fu il più affascinantemente cinebiografato da Gallone (più di Puccini a nostro avviso, e senz'altro più di Verdi che appartiene a Matarazzo), e che oltre a dare il titolo all'unica regia di Caracciolo si può udire in torneranno i prati di Olmi. E un saluto (oltre ai ricordi in programma) a Peter von Bagh, Manoel de Oliveira, Giulio Questi, René Vautier, Gian Vittorio Baldi, Omar Sharif, Christopher Lee, Marie Dubois, Lilli Carati, Virna Lisi, Anita Ekberg, Laura Antonelli, Magali Noël, Marisa Del Frate... certamente omettendo qualcuno, come ci capitò per errore con Haroun Farocki e Tewfiq Saleh. Quest'introduzione è incorniciata da due icone-sfingi del femminile, Samia Gamal in apertura, Marcella Mariani in chiusura.

 

Sergio M. Germani

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