Presentazione XVIII edizione

 

La vita invisibile

(Il mondo, il cinema e noi)

di Sergio M. Grmek Germani

 

Molto lavoro mi aspetta.

Carl Theodor Dreyer

 

Oko nije soko. [L'occhio non è un falco.]

Dušan Makavejev

 

De bruit et de fureur.

Jean-Claude Brisseau

 

Qui di fronte appare la foto in cui tre sguardi femminili seguono ciascuno un punto diverso, e in nessuno di essi ci siamo noi, che le guardiamo a 52 anni di distanza. Si tratta di una foto discena del film di Mark Robson Valley of the Dolls (La valle delle bambole), del 1967. Tra Barbara Parkins e Patty Duke al centro compare Sharon Tate, due anni dopo satanicamente uccisa, ed è forse il suo sguardo a introvertirsi meno dei tre, a guardare effettivamente un'altra presenza fisica. Di Sharon si è scritto molto di recente, per le varie ricostruzioni della serie di delitti che l'hanno designata tra le vittime (preferiamo la damnatio memoriae per i carnefici, il riferimento satanico può bastare) e per il suo rientrare nella vita di Roman Polanski; sono persino riapparse qualche settimana fa (servizio di Fabio Dorigo su «Il Piccolo» di Trieste) le sue immagini su una nave che transitò da noi proprio per la promozione del film di Robson: che come si ricorderà fu sbeffeggiato, elencato poi in quelle stupide liste che si credono intelligenti dei film peggiori di sempre. E qualcuno lo riterrà meritevole solo di aver suscitato il sequel parodico di Russ Meyer. Ma pur amando anche questo film con Edy Williams, riteniamo da tempo il prototipo uno dei film decisivi di una malinconia del cinema americano (quindi del cinema per eccellenza). Così come, a un livello ancora più alto, il massimo, Lilith di Robert Rossen è qualche anno prima un urlo che eccede tutto il "nuovo cinema" attorno e dopo (peccato che Chiarini a Venezia non l'avesse capito nonostante il suo fiuto): e pensiamo soprattutto a quella domanda d'aiuto finale di Warren Beatty, protagonista con Jean Seberg e Peter Fonda, riuniti nella foto alla fine di questo testo, in un altro di quegli incontri/allontanamenti di sguardi su cui alcune foto di scena riescono a rendere il tempo mobile del film in una sempre impossibile sospensione.

Le foto di scena, per quanto mai con autore il regista del film dal cui set provengono, sono bellissime espansioni del cinema. E perciò abbiamo scelto sempre tra esse le icone del festival, non tra i fotogrammi estirpati dal movimento ma invece da quel mettersi in posa che concentra il flusso del cinema. Quest'anno icona è Mary Nolan in (o più giustamente "attorno", "a fianco" di questo film capolavoro) Outside the Law, autoremake sonoro di un film muto del grande Tod Browning.

 

Mi fa piacere cominciare questo testo, che vorrebbe dire qualcosa del programma di quest'anno, con riferimenti a un suo margine-sintesi, per usare un ossimoro (la nostra icona in cui prima o poi un #MeToo meno a ridosso dell'attualità e più curioso dovrebbe eleggere un'eroina, visto che si giocò la carriera denunciando molestie: e come non vedere nel gesto in posa eppur spogliato di finzione di questa foto di scena anche un urlo ultra-munchiano per tutti gli orrori ed ecco che essa esalta anche il cinema del grande Browning ai cui margini si costituisce nel momento stesso in cui seduce lo sguardo?). Di più, queste righe si allontanano apparentemente dal programma di quest'edizione evocando Sharon Tate e Jean Seberg. In realtà col sottotitolo di questo testo (che ovviamente ama riecheggiare il Dickens, Griffith e noi di Ejzenštejn) dichiariamo più chiaramente che mai che questo nostro piccolo festival vuole appartenere al cinema quanto questo appartiene al mondo.

Non l'hanno capito, ne siamo certi, quelli che quest'anno, avvalendosi del potere democratico da pubblici amministratori, hanno voluto accanirsi sui Mille occhi senza nemmeno conoscerli. Sia chiaro che non c'è ombra di "qualunquismo" in quanto stiamo scrivendo. Che anzi ameremmo trontianamente una vera "autonomia del politico" nelle scelte: ma essa deve basarsi sull'umiltà di una conoscenza rossellinianamente (cioè socraticamente) mai rinchiudentesi in se stessa, non certo su una smania di "postare" su qualche social quanto è passato per la testa in un momento di cattiva digestione. Ma, siatene certi, non trasformerete sadicamente il nostro riso dionisiaco (Giulio Sangiorgio, scrivendo su «Film TV» delle scelte di finanziamenti pubblici che ci colpiscono, ha scritto che «fanno ridere») in un riso istericamente rassegnato. Siamo ancora qui tra i piedi, come vedete, e ciò grazie a quanti non ci ritengono superflui. Ci fa molto piacere che questo festival, nel suo piccolo, faccia un lavoro sugli archivi non come catacombe ma come sprigionamento di bellezze verso il mondo, e si faccia riconoscere sodale da ben più grandi macchine ammazzacattivi quali le Giornate del cinema muto di Pordenone e Cinema ritrovato di Bologna: i festival insomma che come noi non temono di nutrire il presente con l'inattuale. Il nostro festival si realizza grazie all'attiva collaborazione di tutti gli archivi cinematografici italiani e di molti tra gli esteri, e uno di essi, il più vicino geograficamente e nell'amicizia, ci sostiene più concretamente che mai, perché vuole che continuiamo a far parte di quel mondo in cui è riuscito a costruire un'altra meravigliosa macchina ammazzacattivi, la Cineteca del Friuli: nata in reazione al terremoto del 1976 per rilanciare una passione contro la distruzione, denominandosi inizialmente Cinepopolare, in una concezione della popolarità coniugante De Santis e il grande cartoon americano con l'insegnamento di un maestro socratico come il grande archivista Angelo Raja Humouda. Uno la cui opera oggi qualcuno insulterebbe come "di nicchia", e invece ha prodotto la vera popolarità, che non è mai un riciclo di sicurezze, di pubblici che si ritengano già esistenti. Come se invece il pubblico stesso non fosse un'"invenzione senza futuro" (come dissero gli antenati di tutti, i Lumière) da ritrovare volta per volta, e in cui far riunire la moltitudine dei poveri spettatori.

A proposito di maestri socratici, quest'anno ne omaggiamo un altro, Giuseppe Lippi. Avremmo preferito vederlo tornare tra noi: una sola volta venne ai Mille occhi, per onorare un'altra maestra, Ornella Volta (e su lei, in mezzo tra Bruno Tasso e la coppia Fruttero-Lucentini altro Virgilio degli universi fantastici, egli ha scritto su «Robot» degli studi magnifici e sempre affabulanti com'era costitutivo delle sue passioni), ogni anno però c'incontravamo a Pordenone e riceveva il nostro catalogo appena pubblicato. Perché I mille occhi non si ritengono un recinto ma un'estensione al mondo, si prolungano negli scambi che avvengono altrove. E anche nei tempi siamo espansi: siamo alla diciottesima edizione, ed è già qualcosa, ma il nostro sguardo è molto più remoto. Giuseppe è stato con chi scrive, e con Annamaria Percavassi, Piera Patat, Marina Silvestri, Fulvio Toffoli (con qualcuno ci si ritrova...) e altri che mi scuso di non nominare, a fianco della cattedra di Lino Miccichè, tra i rifondatori del CUC di Trieste a inizio anni '70, e con essi svolgemmo una riscoperta del cinema parallela alla Cappella Underground, unentici anche le frequentazioni di Rosella Pisciotta, Sergio Crechici e altri ancora, e da questi luoghi si dipartirà a Gemona Cinepopolare e poi la Cineteca. Qualche anno prima c'erano stati Tino Ranieri,Callisto Cosulich, Tullio Kezich, che noi conosceremo più tardi; e subito dopo la generazione successiva con, attorno ad Alberto Farassino, Paolo Lughi, Salvatore Ambrosino, Adriano Bonazza, Enzo Kermol, con cui editammo anche i due numeri di «la cosa vista» prima di prendere strade diverse... e poi Cristina D'Osualdo e altri ancora («faremo un altro film e un altro ancora» dice la frase sublime di Norma Desmond/Gloria Swanson in Sunset Boulevard).

Non vorrei assalire un pubblico che vogliamo anche giovanissimo con ulteriori rievocazioni.Devo aggiungere soltanto, per Giuseppe, che quando curò con Codelli le belle retrospettive per il primo Festival di fantascienza, s'impegnò a favorire la parallela fantaScena curata da Farassino e da me, pur sapendola mossa da una mia volontà di integrare la loro Fant'Italia: ma nelle vere amicizie i contrasti non sono mai sgarbi, sono arricchimenti reciproci. E quando venne, per un'unica volta, ai Mille occhi ne amò quella capacità di creare dentro un festival aperto al pubblico più largo momenti di simposio platonico (ecco, siamo ancora a Socrate, dunque a Ros sellini).Vogliamo solo far sapere a chi non se ne fosse accorto che questo festival appartiene a una lunga e non ingloriosa vicenda regionale, divenuta poi nazionale e internazionale. Che non ci possiamo far demolire dal primo terremoto di passaggio.

Quindi continuare a fare questo festival è per noi un imperativo morale. Stop, passiamo al programma. Ricordando che come sempre quanto in un'edizione riusciamo a realizzare è la piccola parte concretamente realizzabile di un'officina di progetti in larga parte rinviati. Ma allo stesso tempo ci apriamo volentieri alle offerte altrui: dagli archivi già menzionati agli altri festival come quello di Locarno quando le sue retrospettive s'incrociano con le nostre passioni (cosa che certo avverrà anche per Edwards), alle istituzioni locali. Quest'anno i giorni del festival saranno arricchiti dallo svolgersi di altri quattro eventi a Trieste inseriti nel nostro programma, tra i quali due iconiche mostre fotografiche, e quella curata da Claudia Colecchia ci consentirà di reincontrare in belle foto l'attrice triestina Federica Ranchi che fu nostra ospite, di vedere una sfolgorante Maria Grazia Buccella sotto lo schermo del primo Festival di fantascienza, e soprattutto di tornare al nostro omaggio a Tino Ranieri, di cui anche il catalogo della mostra scopre i retroscena creativi del suo lavoro al Comune.Altre iniziative sparse nel mondo ci teniamo almeno a segnalare: l'uscita del gran volume di Tutti gli scritti di Ercole Patti presso La Nave di Teseo; quella di una biografia di Gli Oesterheld presso Edizioni 001, in una ricostruzione appassionante nella tragicità delle disapparizioni argentine che colpirono anche la famiglia del massimo autore di fumetti (mai disegnatore: e l'esserne autore, più che con un modello di sceneggiatura pur interessante alla Aurenche-Bost, ha a che fare col creare in assenza di cui ci è maestro Rossellini).

Fuori da scadenze di anniversario, abbiamo molto ripensato anche a Roberto Palazzi, sommo bibliofilo ed amico (quando lo definii "grande" in un mio scritto, lui ancora vivo, mi collegò subito con gesto di sublime umorismo l'aggettivo alla sua corporatura).Infine ribadiamo che I mille occhi, in quanto realizzati dall'Associazione Anno uno, non si esauriscono nell'evento di 6 giorni, si prolungano su tutto l'anno, fanno crescere un archivio (in cui abbiamo molto volentieri accolto anche una donazione di Claudio Venza), realizzano altre iniziative (spesso a cura di Mila Lazić) sul territorio... e poi guardano film, leggono, non rifuggono dagli inferni della rete, talvolta viaggiano, coltivano amori... niente finisce qui.Alcuni progetti varati negli anni scorsi alfine si realizzano. Per Franco Piavoli siamo felici delle altrui attenzioni, non chiediamo esclusive, vogliamo anzi che il festival possa rilanciare sempre verso conoscenze ulteriori. Ma stavolta ci godremo noi, il pubblico di questo festival, la presenza di Franco e dei suoi film. Che per noi è chiaramente anche uno sviluppo dell'attenzione per Ermanno Olmi. Ma, a scanso di equivoci, si tratta di cineasti diversissimi (il che chi scrive non considera un ostacolo ad accoglierli entrambi), come è diverso ancora De Seta, o altri che filmano eventi naturali, figure nel paesaggio ecc.Di Franco Piavoli non può non convincerci l'essere divenuto cineasta da un percorso di uomo(«il mestiere più difficile» secondo Rossellini), e di aver attratto nel suo mondo poetico, in tuttalibertà, la moglie Neria Poli, e poi il figlio, di aver coinvolto amici e conterranei, tra cui il padre di Cecilia Ermini, Sergio, e lei stessa, tra gli attori (nel senso forte del termine) di un cinema che appare senza attori. Altro che "documentarista"! Si tratta di un cinema che eccede barriere tra realtà e finzione (anche se ben ha fatto Cinéma du réel a omaggiarlo). La nostra proposta non si teme una ripetizione di altre già avvenute o avvenenti (compresa l'elezione ammirativa di Silvano Agosti o Marco Bellocchio). Riteniamo che questa rassegna ai Mille occhi ne farà scoprire bellezze non ancora percepite. E che ad esempio su un film centrifugo come Nostos si potranno avere sorprese nel rivederlo in sala. Ci attrae poi il fatto di immergere Piavoli in un programma che contiene molti viaggi nei paesaggi italiani.È da qui che è partito il nostro ulteriore omaggio a Vittorio Cottafavi e Siro Angeli, oltre che dal voler cogliere al balzo la riproposta del film restaurato digitalmente per Venezia. Noi ne vedremo stavolta la copia d'epoca, che come quella di Un anno di scuola di Giraldi l'anno scorso saràarrossata dal deperimento... potrebbe essere l'ultima volta che questa copia si vedrà, quindi sia benvenuta la digitalizzazione, purché restiamo consapevoli che la perdita del corpo pellicolare da parte di un film rappresenta una direzione più incorporea per la sua immagine.Insieme al film carnico Maria Zef programmiamo altri film del regista immersi nelle mille geografie della penisola italiana (con l'espansione iberico-mediterranea di I cento cavalieri e la grande opera di Roman Vlad su libretto di Giuseppe Berto - di cui uscì anche un volume con illustrazioni del geniale cantante-artista Herbert Pagani La Fantarca appunto, cosmogonica cartografia peninsulare): rinviamo per ragioni tecniche l'insieme delle Langhe, mentre presentiamo il maremmano Il taglio del bosco dove è notevole che la fonte narrativa di Carlo Cassola (uno di quelli che, come Bassani, un'affrettatamente autoreferenziale avanguardia liquidò come rétro: ma non ci cascarono i grandi cineasti, e Cottafavi come Zurlini li frequentarono) sia anticipata da un piccolo ruolo dello scrittore nel dolomitico Quelli della montagna (in cui compare anche il goldoniano-friulano splendido attore che fu Nico Pepe): e come non ricordare che Cottafavi iniziò come fotografo di montagna, con l'"alpinismo eroico" (in un'accezione tutt'altro che di regime) di Emilio Comici. Così come sarà scalatore (o meglio viaggiatore di montagna)Luc Moullet, che genialmente unì Maria Zef in un double-bill con Ecologia di un delitto di Bava.Di questo critico (che si collega nell'amore per la montagna ad altri grandi cineasti: Andrzej Munk, Luciano Emmer... tanto per non accorgersi solo di Herzog) ospiteremo spero uno scritto,insieme a un altro di Michel Mourlet che elesse Cottafavi a re della messinscena (spiazzando Aprà), in un volume cottafaviano in preparazione, che vorrà anche ricostruire la costellazione del regista con il poeta carnico Siro Angeli e la scrittrice veneta Paola Drigo, proseguendo le eccellenti ricerche di Ermes Dorigo, Gianfranco Ellero, Marika Bilia (notevole il suo volume su Angeli poeta), e per la scrittrice di Rossana Melis che ci raggiunge alla proiezione.Avremo l'onore di proiettare anche alcuni dei viaggi in Italia dell'austriaco Peter Schreiner: oltre a Bellavista, ambientato a Sappada, new-entry dal Veneto nel Friuli Venezia Giulia, vedremo il suo precedente film su una popolazione germanica della penisola, sul cui nome Cimbri può bastare una citazione da Wikipedia per un primo affascinante assaggio: «L'origine del nome non è conosciuta. Un'etimologia possibile è *tk ́imk-ro- "abitante", da tk ́oi-m- "casa" (> ing. home), a sua volta una derivazione da tk ́ei- "live" (> greco κτίζω, lat. sino ̄); e quindi il germanico *χim-bra- trova un esatto legame con lo slavico sębrъ "fattore" (> croato, serbo sebar, russ. Sjabër).A causa della somiglianza dei nomi i Cimbri sono spesso associati con i Cymry, il nome con cui i Gallesi chiamano se stessi. Tuttavia questa parola è generalmente fatta derivare dal celtico *Kombroges, nel significato di Compatrioti, ed è difficile pensare che i Romani abbiano registrato questa forma come Cimbri (la forma Cambri è neo-latino). Il nome dei Cimbri è stato anche posto in relazione con la parola kimme nel significato di "bordo", cioè il popolo della costa, ma questa ipotesi è incompatibile con l'associazione di Cimbri con Himmerland giacché kimme non mostra gli effetti della legge di Grimm. Ed infine dall'antichità il nome era stato accostato a quello dei Cimmeri»

E insieme ai Cimbri diamo un benvenuto in Italia e in Europa a tutte le popolazioni che si dicevano jugoslave e nel cui vagare oggi in una geografia frantumata forse proprio il cinema riesce a dare una casa. La terza e ultima puntata (ma ovviamente così come la ricerca ebbe dei precedenti avrà anche dei seguiti) dei Castelli di sabbia ci permetterà di incontrare cineasti soprattutto serbi e croati (con a fianco la piccola onda montenegrina) a cui proprio i festival offrono preziosi luoghi d'incontro, insieme all'intreccio di coproduzioni che ne nascono.Un altro cineasta germanico che ama l'Italia, e i suoi corpi femminili, è il monacense Eckhart Schmidt, di cui quest'anno ospitiamo un secondo programma. Inutile nasconderci che l'anno scorso la nostra scommessa sull'ampia rassegna è stata solo in parte ripagata nell'attenzione del pubblico. Ma, dato che di Rossellini amiamo anche la testardaggine delle proprie convinzioni,rilanciamo, sicuri che la capacità di dividere del cinema di Eckhart è un suo valore aggiunto.Per dirla con Amadeo Bordiga: «io posso aspettare». Quello che di sicuro non aspetta è Eckhart,per cui il fare cinema è un flusso continuo: ha girato anche un film l'anno scorso durante I mille occhi e quest'anno lo vedremo. Ma non arriveremo mai a vedere tutto di lui, che ci mette condizioni del rapporto coi libri manifestato in una delle grandi regie di Massimo Troisi: loro in tanti a scriversi, io uno solo a leggere, in una corsa non meno impossibile che quella di Achillecon la tartaruga. Quest'anno in tanti si occupano del trentennale di Fuori orario. Da amici e concreatori da una vita non possiamo essere di meno, e anzi sottolineiamo un Expanded Fuori orario, programmando due film (che per la prima volta lo scrivente osa accogliere nel festival che dirige tra i da lui firmati) in cui si ritrovano presenze anche divisesi in opposte direzioni, come i frati che cadono verso tutte le direzioni del mondo nel finale di Francesco giullare di Dio: scena tra le più giustamente amate anche da enrico ghezzi, che l'ha molto acutamente unita a quella della freccia che Stanlio e Ollio prendono in mano in Noi siamo le colonne, sicuri della direzione che gli farà seguire. Fuori orario ha anche più di trent'anni se a essi uniamo la "preistoria" di «Il falcone maltese», una delle riviste italiane di cinema più inventive, nella quale enrico ghezzi e Marco Giusti furono ancora uniti anche in Stanlio e Ollio, e con essi Teo Mora sbrigliò la sua vena orrorifica, e Mauro Bocci un sottovalutato eclettismo. Nella rassegna, oltre a proporre la congiunzione astrale tra i frati di Rossellini e la freccia laurelhardyana, vedremo enrico nell'opera prima assoluta dello scrivente, prodotta nell'ambito della sperimentazione per l'avvio della Terza Rete RAI, nonché un film ideato da enrico, realizzato per il Salso Film Festival di Adriano Aprà e Marco Melani, in cui Marco Giusti ed io entriamo confliggendoci nel rapporto col porno.E a proposito di «Il falcone maltese», se quello tra «Filmcritica» e «Cinema & Film» fu uno scontro tra potenziali padri, attorno vi furono tanti figli di nessuno, e tra la citata rivista genovese e la meteora triestina di «la cosa vista» nacque un'impresa di lucida follia come «Fiction» dove col carissimo Michele Mancini e con Alessandro Cappabianca e Renato Tomasino s'incuneò il grande anarca Ellis Donda. In una di quelle cene-simposio a casa di Michele, presente Cristina Cristini, ricordo come Ellis ci spiazzò tutti eleggendo Luchino Visconti a vetta assoluta del cinema. Per enrico ghezzi, che a malapena ama L'innocente (e io preferisco ancora Appunti su un fatto di cronaca, il più breve e intenso Visconti) sarebbe impossibile accettarlo. Ma vedendo oggi, per la prima volta in Italia, il film di diploma di Ellis, vi troviamo ciò che solo nei cineasti di profonda convinzione si trova: il sottofondo dell'amore per Visconti fa incrociare Rilke e Schönberg, in un set vagante tra Duino e l'interno in cui si esalta la splendida voce corporea di Rossella Or. L'abbiamo sinora visto solo su uno schermo da computer, ma pregustiamo la proiezione del 16mm su grande schermo. E, avendo trovato nel film di Ellis la splendida Or (il cui stesso nome tronco esige mille completamenti, da orecchio a oro a orgasmo), come non volerla subito alla proiezione? per rilanciare con una personale di Nico d'Alessandria, che nel suo ultimo film l'ebbe coprotagonista (con la parimenti sublime Magali Noël). Di Nico, uno dei più inventivi cineasti italiani, che s'incontrò col poeta greco Stavros Tornes, spero che Silvana Silvestri riesca a realizzare una personale davvero completa dopo la nostra. Noi abbiamo riunito tutto il fondo dei suoi film alla Cineteca Nazionale, che lo ebbe tra gli allievi al CSC, per il quale furono realizzati i suoi due primi corti, e nel secondo vi è un grande Carmelo Bene preregistico.E, data la presenza in questi (e nel parallelo Garrone) di alcuni grandi esponenti delle avanguardie romane, teatrali e poetiche, come non voler richiamare in convergenza il film più con-troverso di Pietro Germi, quel Le castagne sono buone che il suo esegeta Mario Sesti osa liquidare come «imbarazzante»? Infatti, accanto a Gianni Morandi e Stefania Casini, in quel film s'incunea una sequenza (tagliata in riedizione e mancante nel 16mm dell'anno scorso) di un "teatrino" romano in cui la magnifica Nicoletta Machiavelli recita con Memè Perlini. Vogliamo allora dire che tutto in questo film di Germi (certo meno bello dei grandi Il testimone e L'immorale)può restare incompiuto, ma che tuttavia si tratta di un film da amare incondizionatamente? Sì,lo diciamo.

Di Germi quest'anno presentiamo anche il trittico di fine anni ‘50, unito non solo dalla collaborazione (segretaria di edizione, ma il ruolo sconfinava di fatto in un'aiutoregia amicale) della triestina Anna Gruber (su cui si sofferma Marina Silvestri, anche con un contatto con Linuccia Saba),ma dal fatto di essere forse il momento di più sofferta gestazione del cinema germiano, non a caso nel doppio ruolo regista/protagonista, poi ancora più brillantemente ripreso nel cinema di Damiano Damiani. Di questo trittico siamo particolarmente affezionati al terzo film, che se non poté non scontentare Carlo Emilio Gadda (del quale Il palazzo degli ori è la geniale riscrittura del proprio Pasticciaccio e di cui è sublime la paura di accogliere l'invito di Germi sul set per paura di esservi assassinato: basterebbero questi due gesti, l'ultralettristico cinema senza cinema del Palazzo e il designare il set del cinema come luogo del delitto, a rendere Gadda uno dei massimi cineasti), e tuttavia quantomeno nella presenza sacrificalmente incompromessa di Eleonora Rossi Drago la versione di Germi è profondamente gaddiana: se Gadda ricorda della lettura di Dostojevski il trauma dell'uccisione di un gatto, allora in questo film di Germi la divina Eleonora (quanto la Duse per me) si manifesta in una gattitudine femminile assoluta.Tanto altro andrebbe detto del programma. Ma vogliamo che lo scoprano gli spettatori. Quasi nulla abbiamo detto di Laurel e Hardy, e per fortuna l'acribia di Enzo Pio Pignatiello ci aiuterà a colmare la lacuna. Qui basti dire ancora una volta che, seppur nati dal già immenso Leo McCarey, i nostri non diverranno solo i due massimi attori comici di sempre (e sia Chaplin che Jerry Lewis l'hanno capito) ma due massimi cineasti tout-court. Il delizioso Il villaggio incantato dimostra l'infondatezza di quanti li ritengono sminuiti nei film di cui non sono protagonisti.In realtà la distopia pre-antihitleriana di quel film si esalta proprio grazie all'attraversamento di quei due corpi, che rendono la presenza stessa un valore ribelle. Ricordate, spettatori del festival, quel film amatoriale che proiettammo alcuni anni fa (e un importante cineasta italiano, Luca Ferri, venne a vederlo con noi, e come non pensare ai suoi Curzio e Marzio, o anche all'atto di cinema assoluto che unisce due tombe nel finale di Abacuc) ricordate quello Stan Visits Ollie in cui il primo va a visitare il secondo malato? Abbiamo sempre pensato che quel piccolo film è uno dei luoghi ordetiani centrali di tutta la storia del cinema. Laurel e Hardy, nelle finzioni (anche del reale) mariti e genitori (anche di se stessi), hanno generato nel cinema italiano alcune splendide coppie di voci (che talvolta Croccolo ha provato a riunire in una), e tra esse Mauro Zambuto e Alberto Sordi hanno creato un metacinema di livelli abissali. Con invenzioni sublimi quale quella che in Venti anni dopo slitta da un infinitamente rinviato «in un baleno» al suo spiegarsi con la balena. E qui non resta che dire che Sordi-Zambuto s'inseriscono con Totò e Walter Chiari tra i massimi inventori della lingua italiana, sulla scia da Dante a Tommaseo a Gadda (rispetto ai quali i nostri, intendendosi in senso triestino, Svevo e Saba hanno capito che la lingua si può anche eludere, lasciando il lavoro da fabbri a Joyce e Pound).Ci resta da ricordare i cineasti che dall'edizione precedente del festival sono scomparsi (oltre a quelli che omaggiamo già nel programma e nei suoi margini, quali foto, exergo e titoli di percorso Not Yet Evening è il titolo internazionale dell'incompiuto ultimo Marlen Huciev, che speriamo ancora si renda visibile). Cominciamo però da alcuni contemplatori di cinema: Guido Ceronetti, Andrea Camilleri (che fu amico e collaboratore del nostro Siro Angeli), Michel Serres. Alojz Rebula (che forse ignorava il cinema ma fu tra i miei indimenticabili insegnanti), Piero Del Giudice. Una scrittrice che dobbiamo in gran parte ancora leggere che però nel cinema di Oliveira (e recentemente di Rita Azevedo Gomes) si è resa mente assoluta di cinema: Agustina Bessa-Luís. Un Premio Anno uno purtroppo accolto a distanza, eppure da noi molto amato:Dimos Theos. Milena Dravić che fu più volte ospite da noi, anche come ambasciatrice di Makavejev. E, restando ai nostri exergo, Brisseau che una vicenda di fraintendimenti ci ha impedito di avere tra i premiati, non perché non fossimo propensi a osare ma perché speravamo di poter attendere. Registi da riscoprire: Nicolas Roeg, Kazimierz Kutz, Jonas Mekas, Stanley Donen, Luis Rosenberg Filho, Jean-Pierre Mocky, Richard Williams, Agnès Varda. Creatori da altri ruoli come il musicista Michel Legrand e il produttore Artur Brauner. Grandi attori come Albert Finney, Bruno Ganz, Carlo Giuffré, Raffaele Pisu, Cosimo Cinieri, oltre al Peter Fonda qui in foto.Alcune attrici la cui presenza ha turbato e continuerà a turbare i nostri sogni: Bibi Andersson,Machiko Kyo, Isabel Sarli, Edith Scob, Valentina Cortese, Ilaria Occhini, Alessandra Panaro,Barbara Nascimbene, Julia Adams, Nadja Regin.

 

 

 



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