Da Dwan a Cukor, oltre le retrospettive

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Dopo una selettiva ma fondamentale retrospettiva Allan Dwan a Bologna (su cui in calce articolo per Il manifesto di S.M.Germani in versione integrale) si attende la grande retrospettiva completa dedicata a George Cukor a Locarno, dal 7 al 17 agosto. Il curatore Roberto Turigliatto, amico e collaboratore dei Mille occhi, vi ha dedicato una bella presentazione su Il manifesto del 30 luglio, che qui riprendiamo. Ci saremo a Locarno, per rivedere alcuni Cukor, e l'anteprima mondiale dell'ultimo Paulo Rocha che poi arriverà ai Mille occhi. Vi introdurremo "Camille", "classico" non meno estremo dei Cukor sregolati quali "The Chapman Report", "Bhowani Junction", "Heller in Pink Tights"... o il finale "Rich and Famous" che sarà proiettato alla presenza di Jacqueline Bisset (come "Justine" con quella di Anna Karina).

Come è ben noto, I mille occhi vogliono andare nei propri poveri programmi (l'aggettivo non è più un insulto, dopo Papa Francesco) oltre il concetto di retrospettiva, unendo film di ogni epoca come se potessero essere visti per la prima volta da mille occhi viventi (quelli chiusi spalancati sarebbero molti di più). Ma proprio perciò apprezziamo i festival, come Locarno, ancora capaci di credere nel valore delle retrospettive, curate e realizzate con passione.



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La perfetta doppia vita di George Cukor


APERTURA - ROBERTO TURIGLIATTO



La poetica di un geniale autore applicata sui set di Hollywood, appresa dai palcoscenici di Broadway mescolando verità e finzione

Cinquantuno film accreditati e «firmati» come regista, una ventina cui ha collaborato a vario titolo, uno rimasto incompiuto per il ritiro e poi la morte di Marilyn: non si può dire che nel corso di oltre cinquanta anni (dal 1929 al 1981) George Cukor non abbia indiscutibilmente edificato passo dopo passo, dopo un lento inizio alla Paramount sotto il segno della modestia e dell'apprendistato, non solo una carriera ma un'«opera» tra le più risplendenti e affascinanti del cinema hollywoodiano. Oggetto di discussione è semmai se quest'opera corrisponda alla poetica di un autore, o non sia invece il prodotto di un uomo il cui genio incontestabile si è applicato all'industria degli studios del periodo d'oro con metodo e disciplina, abilissimo e navigato «director» (come egli stesso ha sempre amato presentarsi) al servizio di un sistema di cui ha decantato le virtù e le grandezze. Per chi ha curato questa retrospettiva locarnese non c'è esitazione nella risposta. Poche settimane fa già Sergio M. Germani ha scritto su queste stesse pagine (in un testo sulla retrospettiva bolognese dedicata ad Allan Dwan) che una delle più geniali invenzioni della politica degli autori francese della fine degli anni Cinquanta è stata la consacrazione - dopo il primo periodo hitchcocko-hawksiano - di George Cukor e di Vincente Minnelli ad opera di un gruppo relativamente minoritario, soprattutto Jean Domarchi e Jean Douchet (ma anche Rohmer, Truffaut, Godard).


L'eterno inseguimento

Di famiglia ebrea emigrata dall'Ungheria a New York, prima di Hollywood Cukor ha potuto conoscere il mondo di Broadway. I riflessi del palcoscenico, il fascino dell'esibizione, l'eterno e reciproco inseguimento tra vita e teatro saranno una componente essenziale del suo cinema. La stessa mise en scène si realizza attraverso il gioco dell'attore e la sua pulsione allo spettacolo, ma a patto di capire che è nell'artificio e nell'illusione che appare la verità e che la finzione è già di per sé un mistero della vita, nel suo infinito gioco di specchi e di prospettive. Come dice Camille alla fine di La carrozza d'oro (film che peraltro Cukor dichiara di non amare): «Dove finisce il teatro, dove comincia la vita?», una frase che potrebbe ben suggellare anche l'eccentrica, funambolica carriera di travestista di Sylvia Scarlett in Il diavolo è femmina o le picaresche avventure nel selvaggio West di Angela Rossini con la sua compagnia di guitti in Il diavolo in calzoncini rosa. È stato Rivette a sostenere che il cinema ha un unico soggetto, il teatro. Cukor sa molto bene che questo teatro può essere tanto il vero e proprio palcoscenico di Broadway o di Parigi o di una troupe ambulante, quanto il mondo «reale»: una magione patrizia di Filadelfia, l'aula di un tribunale, lo studio del dottor Chapman con le sue sedute. Ma può essere anche un «piccolo teatro» personale e privato in cui rifugiarsi e costruire il proprio mondo «alternativo» a quello esistente così detestabile, come la meravigliosa e commovente camera dei balocchi e dei ricordi di Katharine Hepburn in Incantesimo (luogo segreto e baluardo contro l'intrusione del padre e dei terribili ricchi) o nelle fastose e colorate rievocazioni artificiali di zia Augusta di un sontuoso passato perduto o solo immaginato (In viaggio con la zia). Cukor appartiene dunque a quella generazione che è arrivata al cinema sonoro attraverso il palcoscenico, per aiutare gli attori impreparati ai dialoghi. Non succede anche a Hollywood come altrove che in quel passaggio si ritrovino anticipazioni sorprendenti della modernità? Non germinano lì quelle che poi saranno, ad esempio, alcune stupefacenti inquadrature lunghe di Cukor, del tutto inspiegabili all'interno delle regole del «découpage classico», in cui è la stessa macchina da presa a diventare personaggio, chiamando in causa nel suo sguardo il gioco della verità e della menzogna e sanzionando l'irriducibile distanza tra attore e personaggio, tra testo e ripresa? Non meno di Renoir, Rohmer o Warhol (non li cito a caso) Cukor è al 100% cineasta. Del resto fu Godard a dire che The Chapman Report (in italiano intitolato Sessualità) somigliava molto a La Pyramide humaine di Jean Rouch.


Intensa sensazione

Nella presentazione alla prima retrospettiva su Cukor organizzata da Langlois nel 1963, Jean Douchet scriveva che nei suoi film la donna accetta l'amore «offrendosi in spettacolo», e che «solo l'illusione le permette di provare l'intensa sensazione di vivere». Il «femminile» è sempre stato in Cukor il luogo dell'infinito travestimento, da cui anche la sua complicità con le grandi star. Il regista ha avuto ben presente - forse anche per la sua professione discreta e protetta di omosessualità in un'epoca di forzata segretezza pubblica per chi era ai vertici di Hollywood - il carattere di perpetua «messa in scena» orchestrata dalla differenza sessuale. La sfilata di moda a colori aggiunta a Donne non è in fondo fuori posto proprio perché di abiti, travestimenti, esibizioni, gioco delle apparenze, stiamo sempre parlando. Questa multiforme trasfigurazione del «femminile» possiamo trovarla sia nei tanti ritratti di gruppo (le quasi insopportabili arpie di Donne, le tre Girls con le loro diverse messe in scene musicali dai rispettivi colori, le quattro donne insoddisfatte dei suburbi agiati di The Chapman report) sia nelle figure doppie di Greta Garbo in Margherita Gautier e Two-faced Woman (Non tradirmi con me), di Katharine Hepburn in Il diavolo è femmina, di Gloria Swanson in Volto di donna, di Judy Garland in È nata una stella) di Judy Hollyday in Nata ieri e La ragazza del secolo, di Ava Gardner in Bhowani Junction. Possiamo vederne le variazioni finali nella splendida scena della moltiplicazione allo specchio di Anouk Aimé in Rapporto a quattro, nelle deliziose menzogne di zia Augusta in In viaggio con la zia, e nel meraviglioso duetto tra Jacqueline Bisset e Candice Bergen in Ricche e famose, sublime testamento conclusivo del regista.

Attraversando quasi per intero il «secolo breve», Cukor è stato anche tra i più lucidi e consapevoli nel cogliere dall'interno le contraddizioni della vita americana, una società «modernista» molto più avanzata rispetto alla vecchia Europa ma nello stesso tempo incapace di liberarsi del retaggio puritano sia nella morale sessuale sia nel predominio accordato al puro scambio economico nelle relazioni sociali. Non per caso il vecchio «marxista» Domarchi potè scrivere a proposito di La ragazza del secolo che «da nessun'altra parte si trovano espresse meglio che in questa storia le componenti essenziali della società americana». E non ha torto Jacques Lourcelles nell'insistere - tra i pochi - sul «senso del tragico» come cifra segreta del regista, scrivendo a proposito di Vivere insieme che «mai la commedia americana classica si è spinta così lontano nella descrizione ingrata e crudele della vita di coppia di due americani della classe media». Sì, davvero una visione lancinante e senza scampo del matrimonio, compresa la morte del bambino in una scena che lascia senza fiato per la sua impassibilità («Era un'idea coraggiosa mescolare tragedia e commedia? Non accade così anche nella vita?», dice serafico il regista). Negli anni cinquanta Cukor è autore di quattro film newyorkesi, L'indossatrice (un grande film misconosciuto da riscoprire), Mariti su misura, Vivere insieme e La ragazza del secolo, assolutamente anticipatori anche per le riprese in esterni urbani, la dimensione dimessa di banale quotidianità, il tono quasi da cinema diretto (non sembra casuale la professione di «documentarista» di Jack Lemmon nell'ultimo film citato). Raramente come in questi film è stata rappresentata con maggiore delicatezza e insieme durezza l'irreparabile, terribile inappagatezza della vita, la malinconia del passaggio del tempo, l'esistenza come rapida illusione, che poi ritroveremo in diverse decantazioni in tutti gli ultimi film.


Percorsi anomali

Cukor è un autore del classicismo americano? Questo classicismo è davvero mai esistito se non nelle tesi universitarie e nelle «storie del cinema»? Quando solo si esplori per un attimo la ricchezza ed eterogeneità di percorsi spesso completamente anomali e aberranti che si sono scavati un varco nella compatta stratificazione del sistema nell'epoca d'oro apparirà chiaro che anche i film di Cukor lungi dall'essere degli oggetti «perfetti» di alto o altissimo artigianato hollywoodiano contengono al loro interno delle crepe che ne fanno pericolare ambiguamente l'apparente identità. Parole come gusto, eleganza, prestigio, glamour, gradimento ben poco si prestano a definirli.

Più che l'età d'oro del classicismo americano, Cukor sembra incarnare una strada solo sua, un movimento quasi sperimentale verso la modernità («Cukor expérimentateur» è appunto una definizione di Domarchi) , ed è per questo che oggi è importante ritornare sulle sue tracce. Così apparve ai francesi che più di altri lo capirono e lo amarono a partire dagli anni Cinquanta, quando Luc Moullet poteva intitolare un suo articolo in epoca di già nascente Nouvelle Vague (1958): A 60 ans est-il devenu un jeune cinéaste? Mentre a Douchet apparve chiaro che il colore (usato magistralmente a partire da È nata una stella anche grazie alla collaborazione con George Hoyningen-Huene e Gene Allen), era «il tocco finale per portare a compimento l'opera». L'ultimo periodo del suo cinema, così sorprendente da The Chapman Report fino a Ricche e famose e ai due film tv, non impone allora di rivedere tutti i periodi precedenti?

Cukor ha sempre avuto ben presente che la guerra dei sessi, in un rimpallo inesauribile, è in definitiva anche la confusione dei sessi, malgrado la finale esclamazione di Tracy in La costola di Adamo sulla famosa «differenza». La pulsione alla «double life» dello spettacolo, all'illusione e all'artificio è connaturata all'essere umano, donna o uomo che sia, e anche Pigmalione (che può valere come metafora del regista) rimetterà in scena se stesso.


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DIETRO LE QUINTE

Gli scontri con gli studios e la censura

Possiamo pensare che sia un peccato che Cukor, dopo averci lavorato per due anni, non abbia potuto dirigere alla fine Via col vento? Nessuno può dire se con lui avrebbe potuto essere quel «grande film americano» che Selznick con i suoi tanti esecutori in fondo non è riuscito a realizzare, anche se nella sua ossessione si può riconoscere una grandezza (almeno nell'impresa se non nel risultato finale) che Cukor stesso ha sempre riconosciuto. Anche dopo questa disavventura Cukor è rimasto comunque fedele al proprio ruolo di «director» e a differenza di altri registi non diventerà mai il proprio produttore, nemmeno alla fine degli anni Cinquanta. Ma non mancherà di scontrarsi sempre più con gli studios quando film come The Actress, A Star is Born, Bhowani Junction, The Chapman Report, Justine subiranno tagli e manomissioni su cui non ha evitato di pronunciarsi con le parole più dure. Ad esempio su Bowani Junction: «C'erano scene erotiche affascinanti, veramente straordinarie. Ma i responsabili dello studio furono urtati, anche se era fatto tutto con molta misura. Ai produttori non piaceva il personaggio femminile. Il film fu semplificato a un punto da renderlo piuttosto assurdo». Su The Chapman report: «È stato completamente rovinato dal produttore . Gli mandammo una copia del film e lui la tagliò in modo grossolano e poco intelligente. La censura fece il resto. Credo che non ci sia una scena in The Chapman Report che non sia montata in modo diverso da come era stata originariamente pianificata».

Per capire come molti film nascessero anche nelle «pieghe» del sistema, perfino alla MGM, vale infine la pena citare alcune testimonianze sulla realizzazione di Il diavolo è femmina e Prigioniera di un segreto, due film che in seguito la MGM avrebbe voluto non aver mai realizzato: Pandro Berman (produttore di Il diavolo è femmina): «È di gran lunga il peggior film che abbia mai fatto, e la più grande catastrofe di Kate negli anni '30. Io non c'entravo niente. Lo disprezzavo totalmente. Era un affare fra Cukor e la Hepburn. Cercai di fermarli, ma non si sarebbero fermati; erano impazziti, sostenevano che fosse la più grande cosa che avrebbero fatto».

Donald Ogden Stewart (sceneggiatore di Prigioniera di un segreto): «È il film al quale sono più orgoglioso di aver collaborato - nei limiti di dire il massimo di quanto era possibile dire a Hollywood sul fascismo. Era uno splendido racconto sulla possibilità dell'avvento del fascismo in America. Dovemmo tenerlo nascosto a Mr. Mayer - non era ciò che si può definire un film repubblicano».

George Cukor: «C'era la guerra e tutto era cambiato. Don Stewart, che aveva scritto tutte quelle meravigliose commedie brillanti, scoprì questo racconto scritto da una donna , I. A. R. Wylie. Dal momento che eravamo tutti buoni amici - Kate, Don, Spence e io - non ci fu problema a girarlo alla Metro. Quando fu completato Louis B. Mayer lo andò a vedere e uscì infuriato dalla proiezione. Deve essersi sentito politicamente oltraggiato dal film. Non so se Don fosse comunista a quei tempi, certo era molto vicino alla sinistra. Non credo che ci rendessimo realmente conto della portata del film quando lo stavamo girando». David Ogden Stewart, amico di Katharine Hepburn e George Cukor, membro in gioventù dell'Algonquin Circle, Oscar per la miglior sceneggiatura per Philadelphia Story, venne poi blacklisted nel 1950 e costretto all'esilio in Gran Bretagna da dove non sarebbe più tornato.




Dwan a Bologna


di Sergio M. Germani


BOLOGNA. Persino un festival dal programma sempre più ricco quantitativamente e densissimo di capolavori, qual'è stato Il Cinema Ritrovato alla sua ventisettesima edizione, può avere la fortuna di trovare un film che ne diventa il centro, la più essenziale ragion d'essere: in altri termini il film che ha reso il viaggio al festival davvero indispensabile. Questo film c'è stato, ed è l'ultimo film diretto da Allan Dwan, Most Dangerous Man Alive, realizzato nel 1961 e rimasto inedito in Italia. Ve n'era stata una proiezione alla retrospettiva Dwan di Locarno, e i curatori della nuova retrospettiva di Bologna, Dave Kehr e Peter von Bagh, erano consapevoli del valore del film. Per molti altri, anche straconvinti della grandezza di Dwan quali siamo da tempo, il film però restava sconosciuto: introvabile in vhs, dvd (nonostante un bel cofanetto francese sul regista) o Blu-ray, mai trasmesso in televisione dalle nostre parti.

Non nasconderemo che la grandezza del film ci era in qualche modo attesa: la bellezza degli ultimi film dei grandi registi americani "classici" non poteva che trovare conferma nell'ultimo film di colui che da anni ci sembra esserne uno dei massimi, un regista che anzi supera la superficiale distinzione tra cinema classico e moderno. Perché, se a Bogdanovich va il merito di un fondamentale libro-intervista con Dwan, gli va anche il demerito di rinchiuderlo a cineasta primitivo, in una rassicurante "Americana" per riferirsi al genere che dell'America dà una rappresentazione affascinante ma programmaticamente riconciliata. La vera riscoperta di Dwan appartiene alla più bella rivista di cinema mai pubblicata, Présence du cinéma, quella che (come ben sintetizza Skorecki) ha scoperto quasi tutto quello che c'era da scoprire del cinema americano (e molto di quello italiano: Cottafavi, Matarazzo...); però anche lì Dwan non rientrò nel massimo poker d'assi costituito da Lang, Walsh, Preminger, Losey, né presso il successore Skorecki raggiunse la passione per Jacques Tourneur, o presso altri quella per Ulmer. Abbiamo menzionato alcuni degli autori che Dwan riesce ad "assorbire", mentre oggi volentieri lo uniremmo con McCarey, Ford e Minnelli in un nuovo poker d'assi dei registi più indispensabili del cinema americano.

La grandezza dell'ultimo film di Dwan ha però superato la convinta attesa, trattandosi alla visione di un'opera che non può ormai che rimescolare tutte le carte della storia del cinema, e porsi con Dreyer e Rossellini (di cui a momenti evoca La paura) al livello più alto, quello che rivela la ragion d'essere del cinema e insieme va oltre i confini del cinema. Il finale dell'ultimo film di Dwan, con il campo-controcampo tra lo sguardo d'amore della donna e le ceneri a cui è ridotto l'uomo dopo essere passato attraverso un corpo d'acciaio e atomico transumano, resterà ormai nella memoria come un sublime desiderio non realizzato del finale di Ordet di Dreyer; e, come ci siamo detti dopo la proiezione con Olaf Mö, questi due film si uniscono con The Devil Rides Out Fisher nel massimo pensiero religioso e oltre la religione di cui il cinema sia stato capace. Film che appunto del cinema rivelano l'intransigenza nella domanda di presenza dei corpi, a cui religione e filosofia non hanno potuto rispondere. Talché quell'alive del titolo è la più ironica delle riaffermazioni di una necessità voluta.

Alla personale Dwan di Bologna, seppur priva di uno dei massimi capolavori del regista (Driftwood ovvero Fiore selvaggio con Natalie Wood), non sono mancati altri capolavori. Il cinema muto del regista è uno dei più grandi, al livello di Griffith, e rende una personale del Dwan muto ormai indispensabile per le Giornate di Pordenone. Commedie belliche come Up in Mabel's Room sono tra i capolavori screwball, ma di una consapevolezza stupefacente per come questo cineasta "classico" riesca a fare anche un metacinema che esplicitamente sfida la censura: e difatti nel cinema di Dwan troviamo le più belle scene di sesso del cinema americano, i suoi estremi sadomasochistici, la rappresentazione più serena dell'omosessualità (in Tennessee's Partner) e nell'ultimo film una sfida voluta all'impotenza sessuale . The Inside Story è nel 1948 il più bel trattato di economia, ben oltre Capra, capace di riflettere su tutte le crisi economiche, anche quelle odierne. Silver Lode è nel 1954 la più esplicita resa dei conti con il maccartismo, al punto da poter dare al deuteragonista il nome McCarthy. Èdavvero sorprendente come la storiografia cinematografica abbia visto le pagliuzze (High Noon) e non le travi (Silver Lode ).

Ma tutti questi splendori diventano solo la preparazione dell'ultimo film, la più radicale rappresentazione dell'America mai vista. Basti dire che questo film sulla distruzione si apre con una battuta che si riferisce allo sterminio indiano e si conclude su uno sterminio che esplicitamente richiama i coevi napalm del Vietnam. Ci si chiede come sia possibile che questo capolavoro, che supera la fantascienza anni '50 di Hawks e Siegel, non sia mai stato incluso in qualche rassegna del cinema fantascientifico. Com'è possibile la nostra abissale ignoranza di un'opera che va oltre il coevo Corman e già include i morti viventi del Romero sessantottesco e i gli ultracorpi di Cronenberg (peraltro canadese come Dwan)? Com'è stato possibile non accorgersi che questo film eccedeva la grande fantapolitica coeva di Frankenheimer, Schaffner e Kubrick? Com'è possibile che un film che l'anno prima di La jetée Marker si apre nei titoli sulle proprie immagini ferme (anche dello spacco poi ripetuto in un giornale sulla coscia di Debra Paget) "retrocedendo" nel seguito al movimento; il film più nero del cinema americano, ai limiti dell'invisibilità; il film dal sonoro più sporco mai udito, non fosse stato immediatamente percepito da tutti come un massimo capolavoro? Per Présence, che pur avendo scoperto Dwan non ha sottolineato la bellezza di questo film, è presumibile giocasse quella diffidenza verso i film della vecchiaia che ahimé si risente anche nel grande dizionario-summa di Lourcelles. Per i Cahiers du cinéma, allora lacerati da secondarie lotte intestine, il merito di aver posto allora al centro Ford o di essersi accorti di Lilith Rossen dopo aver saputo cogliere l'importanza di Minnelli e Cukor nelle scelte della lungimirante linea di Domarchi e Douchet, non è stato purtroppo sottolineato dalla consapevolezza dell'esistenza di questo film. In Italia il film non arrivò, ma forse solo Sandro Ambrogio e Giuseppe Turroni avrebbe potuto accorgersene.

A quel poco che in questa cronaca abbiamo potuto dire vorremmo almeno aggiungere che, a chiunque dei grandi si rapporti il cinema di Dwan, non ne risulta in alcunché inferiore. Egli fa proprie anche le bellezze più circoscrivibili del cinema classico: le molteplici finestre dentro i suoi film vanno oltre il loro inabissare l'inquadratura in Sirk; i colori rossi delle capigliature femminili vanno oltre lo splendore figurativo di Powell, e le sue "veneri rosse" (secondo un brillante titolo italiano) Rhonda Fleming e Arlene Dahl eccedono l'erotismo di Walsh. Dwan, da monumento del cinema americano, ha inoltre preferito percorrere il piccolo cinema della Republic, o di Benedict Bogeaus, genio tra i geni della produzione (anche per lui Most Dangerous Man Alive u l'ultimo film, morirà nel 1968: un omaggio gli è dovuto), anziché rinchiudersi in qualche major. Ha però saputo collaborare con un massimo operatore come John Alton. E se al posto di John Wayne doveva avere come attore John Payne, rendeva la sua "mediocrità" sublime. E la geometria del destino di Silver Lode oltre ogni teorema americano di Lang. E i suoi film trattano il rapporto tra moneta, oro e argento (tra Silver Lode la "Goldie" Coleen Gray) meglio di un trattato di economia.

Il Cinema Ritrovato, oltre a darci quest'anno molti grandi film sovietici (altro territorio, nonostante Buttafava e Eisenschitz, di continue sorprese) e tutto Hitchcock muto (la cui Anny Ondra ci ha preparato all'intensa personale cecoslovacca di Pordenone), ha trovato in Dwan e in particolare nel suo ultimo film il gesto più alto. E non è stato davvero indifferente vedere questo cinema a 35mm (con tre splendide copie dalla collezione Scorsese): il digitale avrebbe tradito quel bisogno di corpo del cinema di cui il finale di Most Dangerous Man Alive è l'infinita, imperitura quintessenza.

 

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